25 aprile 2016 – Guerra, Resistenza, Liberazione

di Mario Tosti

Il secondo conflitto mondiale fu una guerra ancora più “totale” della prima. La distinzione tra civili e militari, che era caduta nel 1914, venne definitivamente messa da parte e la distruzione delle popolazioni civili divenne una strategia condivisa: così fecero i tedeschi nei confronti delle popolazioni slave e italiane, così avrebbero fatto i sovietici nell’avanzata verso Berlino. Il numero di civili che trovò la morte dall’occupazione giapponese in Cina e nel Sud-est asiatico superò i 14 milioni di persone. Gli Alleati portarono avanti per anni una campagna di bombardamenti contro le città tedesche che fece mezzo milione di vittime.

A questo macabro computo andrebbero aggiunti il comportamento inumano riservato ai prigionieri di guerra e la conseguente risistemazione postbellica: dopo il 1945 circa 12 milioni di tedeschi nell’Europa centro orientale furono scacciati verso ovest. Le stime di mortalità di questa terribile coda del conflitto sono incerte: alcune parlano di milioni di morti per fame e stenti.

Le sorti della guerra svoltarono tra il 1942 e il 1943. In autunno i britannici raccolsero un successo fondamentale a El Alamein, in Egitto, mentre a est la battaglia di Stalingrado (febbraio 1943), segnò l’inversione di tendenza e l’inizio della riscossa sovietica. Gli Alleati sbarcarono in Sicilia (luglio 1943) ma incontrarono non poche difficoltà a risalire la penisola. Il regime mussoliniano crollò, il re fuggì e il paese si trovò spaccato tra un nord con un regime fantoccio dei tedeschi con a capo il redivivo Mussolini e il centro-sud nelle mani di un governo nazionale provvisorio.

Dopo l’8 settembre 1943, con l’annuncio dell’armistizio, la dissoluzione dell’esercito, l’occupazione tedesca e l’avanzata anglo-americana, inizia per gli italiani il periodo più drammatico della seconda guerra mondiale.

Dopo un’ininterrotta serie di guerre di aggressione che, a partire da quella all’Etiopia nell’autunno del 1935, rap­presentano una costante della politica estera nazionale, tocca all’Italia divenire teatro di scontri tra eserciti, e tra eserciti e popolazione civile. Le città bombardate, lo sbarco alleato, l’occupazione tedesca e anche la guerra partigiana, i renitenti nascosti, le zone di montagna rastrellate, la guerra civile, sono il risultato di una scel­ta che viene da lontano, dalla guerra in Etiopia, in Albania, in Grecia.

La resistenza politica, organizzata ed egemo­nizzata dai partiti antifascisti, è resa possibile dal falli­mento del regime fascista, e dell’intera classe dirigente nazionale, clamorosamente evidenziato dalla rovinosa sconfitta militare. Il primo obiettivo della resistenza po­litica è dunque quello di approfondire e rendere irre­versibile una radicale discontinuità rispetto al regime fa­scista, alla monarchia che ne ha condiviso fasti e avven­ture, ai valori ideali e alle gerarchie sociali che nel ventennio si sono imposti come modelli per l’intera so­cietà nazionale.

A distanza di 71 anni l’acquisizione di conoscenze, di fonti e di metodi più ricchi e sofisticati, rende possibile delineare una storia della Resistenza sgombra di intenti elogiativi e anche più consapevole di quanto sia ormai indispensabile immergere le vicende della guerra partigiana in una più complessiva storia della società italiana nella crisi del ’43 – ’45.

Appare ormai del tutto superato l’approccio storiografico che ha presentato la Resistenza come una minoranza che si contrappose a un’altra minoranza (partigiani politicizzati contro coloro che avevano aderito alla Repubblica Sociale) nell’indifferenza prevalente del Paese, con la conseguente esaltazione della categoria dell’attendismo, divenuta fondamentale, nell’interpretazione revisionista, per leggere il comportamento della maggioranza degli italiani, indifferente a tale scontro.

La conseguenza più vistosa di tale posizione è stata quella di giudicare la Resistenza meno rilevante e di ridimensionarla dal punto di vista del contributo alla fondazione della Repubblica. Gli apporti più recenti hanno superato l’idea che la Resistenza sia stata solo armata e che accanto a essa c’è stata anche una Resistenza civile.  Se concepiamo accanto alla Resistenza armata una Resistenza civile e se siamo in grado di indagare sulle forme da essa assunte, allora possiamo identificare la categoria nella quale collocare un fenomeno di amplissime dimensioni che, se non annulla del tutto, certamente ridimensiona drasticamente la ‘zona grigia’ dell’attendismo.

Sembra necessario far riflettere soprattutto i giovani sul ruolo della Resistenza attiva, armata e disarmata, sulle violenze tedesche e fasciste contro la popolazione civile, sulla partecipazione femminile a tutte le forme d’impegno e di lotta, sul dramma della deportazione razziale e politica.

Come è noto, l’esperienza resistenziale come fenomeno armato appartiene quasi esclusivamente al Nord d’Italia, perché solo lì ci sono stati due inverni di occupazione tedesca e le condizioni strutturali e militari affinché questo movimento potesse svilupparsi e consolidarsi.

Rispetto alla difficoltà dei progetti e alla radicalità del­le aspettative, la Resistenza probabilmente è durata trop­po poco. La finale corsa per giungere prima degli eserciti alleati a li­berare le città del Nord, l’insurrezione, la partecipazione popolare all’insurrezione, non sono in grado di porre ri­medio a quella che, a posteriori, possiamo chiamare la strutturale brevità della Resistenza.

In Umbria addirittura la resistenza dura solo 10 mesi, la metà rispetto ai venti mesi di guerri­glia delle regioni del Nord.

Accanto alla componente costituita dagli antifascisti militanti, si colloca quella di coloro che sono costretti o decidono di operare immediatamente la propria scelta per uno dei due schieramenti in campo. E’ di gran lunga il gruppo più numeroso – costituito, per lo più, da ufficiali, sottufficiali e militari di truppa che all’indomani dell’8 settembre hanno gettato la divisa per raggiungere le proprie case e si sono chiamati fuori dalla guerra fascista, una guerra che da molti non è stata mai sentita come propria. A co­stringere questi e altri giovani a prendere posizione sarà il bando prefettizio per il reclutamento di manodopera da adibire al servizio del lavoro che, emesso il 20 settembre, prevede l’immediata presentazione di tutti gli uomini delle classi dal 1921 al 1925. Nell’ultima decade di settembre, sono infatti molti coloro che decidono per la fuga sui monti. Una “resistenza alla guerra” che tuttavia non costituisce – e in qualche caso non lo sarà mai – una scelta attiva verso la lotta armata, ma è senza dubbio una decisione che comporta un preciso rifiuto di schierarsi, anche quando tra le sue motivazioni risultano prevalenti le preoccupazioni di sopravvivenza individua­le. Spesso, accanto ai motivi dell’autodifesa personale – che sono largamente presen­ti e non vanno negati – a orientare la scelta di questi uomini è un’interiore rivolta morale, prepolitica, contro il fascismo. Sono soprattutto un istintivo rifiuto della sudditanza e un forte senso di libertà – insieme alla casualità degli incontri fatti in montagna – a portare molti giovani a prendere le armi contro fascisti e tedeschi. Essi costituiranno la prima consistente “leva” partigiana. Le testimonianze in questo sen­so sono molte e inequivocabili.

Nella fattispecie, in Umbria, si possono ricordare alcuni soldati originari della Sardegna che si nascondono nelle boscaglie intorno a Deruta e che in seguito si aggregheranno alla brigata Leoni, o, ancora, il capitano Guido Rossi che con alcuni componenti del suo reparto – il 228° Autoreparto misto – si rifugia sui monti Martani.

Infine, vi è la componente costituita dagli internati e dai prigionieri di guerra fuggiti dopo 1’8 settembre da diversi luoghi di internamento largamente presenti nel territorio regionale (per ricordarne solo alcuni, sempre qui in Umbria, i campi di concentramento di Colfiorito e di Bastardo e il carcere di Spoleto). Coloro che danno un significativo apporto alla guerriglia in Umbria sono, però, nella stragrande maggioranza ex prigionieri di nazionalità slava. Essi costituiscono delle bande proprie o miste con partigiani italiani, per lo più operanti all’interno delle maggiori formazioni umbre, la brigata Gramsci e la brigata Garibaldi. Con una lunga e sanguinosa storia di lotta di liberazione e guerra civile alle spalle, i partigiani slavi svolgono un ruolo determinante nel dare impulso, organizzazione e indicazioni tatti­che allo scontro militare in atto, spesso però appaiono poco rispettosi della mentalità e della cultura presenti nelle comunità che li ospitano e, di conseguenza, producono forzature non prive di effetti laceranti.

L’universo partigiano ruota, dunque, intorno a questo variegato magma politico e sociale, che nella fase iniziale, per esempio in Umbria, riguarda soltanto alcune centinaia di uomini. Ne deriva un aggrovigliato quadro di formazioni combattenti, divise sia politicamente che territorialmente, per la cui unità d’azione inutilmente profondono il loro impegno i dirigenti politico-militari. Ne deriva l’importanza di un approccio centrato non sulla Resistenza ma sulle Resistenze al plurale, che parta dalla disamina critica delle specificità dei vari quadri territoriali di riferimento, ridisegnati dalla lotta di liberazione secondo le proprie esigenze in una geografia che, superando le tradizionali circoscrizioni amministrative, è fatta di sconfinamenti e sovrapposizioni.

Esiste un tessuto di solidarietà molecolare nel Paese che prescinde dalla scelta politica, ma che rappresenta il presupposto, la condizione per la nascita e la formazione di una nuova identità collettiva. In questo modo si costituisce un circuito radicalmente alter­nativo alla precedente idea di nazione. E questo è proprio il merito e l’orgoglio del nostro Paese. Nel momento del crollo della vecchia ideologia, nella cosiddetta ‘zona grigia’ nasce, cresce e si sviluppa il presupposto di un’identità democratica. La de­mocrazia non si fonda sui valori dell’odio verso il nemico, sui principi di un Paese armato che deve affermare la sua potenza nel mondo; essa, al contrario, si basa sul senso della solidarietà fra gli uomini e sul riconoscimento del binomio diritti-doveri come costitutivo della cittadinanza democratica.

Il problema, dunque, non è quello di sostitu­ire alla Resistenza armata la Resistenza civile, ma di ammettere la presenza di varie forme di Resistenza: la Resistenza armata; quella degli ufficiali italiani (quasi 600 mila) che rifiutarono di ubbidire ai nazisti e furono deportati in Ger­mania nei campi di concentramento, la solidarietà spontanea popolare agli ebrei, agli sfollati.

Da almeno un ventennio è emersa l’esigenza di recuperare a un giudizio storico le vicende degli IMI, colpevolmente rimosse, e di conseguenza di sottolineare che l’atteggiamento dei militari italiani ha rappresentato, almeno in parte, una presa di coscienza e una forma di resistenza al nazifascismo. I motivi ispiratori della resistenza furono la fedeltà al giuramento e all’onore militare; la consapevolezza che il rifiuto aveva il valore di un plebiscito contro la dittatura fascista, al quale si annetteva una grande importanza etica e politica; la reazione ai maltrattamenti subiti e alle minacce annunciate. Fu, soprattutto, in un ambiente sottoposto alla legge dell’odio e della violenza, la riaffermazione della fede nella dignità umana e nella libertà morale.

L’insieme di questi elementi ha costituito una riserva morale radicalmente alternativa all’ideologia fascista e ha permesso al Paese di ricostruirsi su valori democratici. La stessa categoria di ‘zona grigia’ viene così vanificata; il Paese non è grigio, è un Paese che vive e soffre mesi terribili pieni di fame, miseria e dolori, e che in questa prova ricostruisce un’identità democratica.

Non è una cosa irrilevante che gli italiani abbiano conce­pito, a rischio della vita, un modo di stare insieme fondato sul valore della persona umana, diverso da quello che il fascismo aveva proposto.

Dobbiamo chiederci se dopo Settantuno anni esistono ancora aspetti di quel periodo che possano essere un punto di riferimento per l’immediato futuro. Pietro Scoppo­la, ormai più di venti anni fa, scriveva nel suo volu­me “25 aprile. Liberazione” (Einaudi): «Que­sto aver vissuto insieme, tutti gli italiani, don­ne e uomini, combattenti e non, un momen­to di eccezionale rilievo morale è forse l’ere­dità della Resistenza intesa nel suo significa­to più profondo e comprensivo».

Che cosa è rimasto allora, di quella spinta ideale? Nonostante tutto, è rimasto moltissimo. Soprattutto nel­la Costituzione, che ancor oggi dimostra tut­ta la sua longevità e validità. Nelle istituzioni locali, nel popolo italiano, nell’attuale Presidente della Repubblica, è ancora forte l’idea che la Costituzione, nella parte in cui stabilisce i principi fondamentali della convivenza civile [il rispetto della dignità della persona umana, l’uguaglianza morale e giuridica, la libertà di opinione, di stampa, di riunione, di associazione, di religione, il diritto di partecipare alle scelte che toccano tutti e ciascuno, il diritto all’istruzione, alla salute, alla giustizia, il riconoscimento del valore di ogni lavoro e la tutela di tutti i lavoratori, il riconoscimento della funzione essenziale della famiglia] non si deve stravolge­re. La sua longevità non è sinonimo di arretratezza, inadeguatezza, è forse la dimo­strazione più forte di quella spinta ideale che ha origine nella Guerra di Liberazione.

La cittadinanza è il terreno vivo e privilegiato su cui incontrare le nuove generazioni, per rompere lo schema di un tempo appiattito sul presente, che domina la comunicazione pubblica, e per stabilire continui rimandi tra presente e passato tanto più necessari quanto più si riduce l’apporto diretto dei testimoni di una stagione che continua ad essere cruciale per capire il nostro tempo.

La Resistenza è stata la dimostrazione del meglio di cui gli italiani fossero capaci: un’assunzione di responsabilità, la volontà di un riscatto che non riguarda solo la storia del fascismo e della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale. Si deve affrontare i problemi controversi della storia della resistenza senza cedere alla sacralità o alla strumentalizzazione politica. L’obiettivo è cercare una via d’uscita alternativa alla ricostruzione spesso rancorosa degli eventi. La memoria della Resistenza non è solo una storia di fatti sanguinosi, di efferatezze, di morti e di corpi violati, ma è anche lo sforzo di individuare le motivazioni profonde di un periodo di grandi speranze e di crescita collettiva.

 

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