Accoglienza’ e ‘generosità’, parole rilanciate come un disco. Perché non riflettere sui coloni di Trevi che rischiarono la vita per salvare ebrei in fuga?

Ai nostri giorni si parla spesso di ‘accoglienza’. Talora se ne discute con matura consapevolezza, a volte si mettono in fila considerazioni di disinvolto buonismo. In effetti cosa significa ‘’accogliere’’. Cosa vuol dire incitare gli altri all’ ‘accoglienza’? Certe domande si sono mischiate a più approfondite riflessioni leggendo la bella notizia pubblicata da un quotidiano fiorentino che ha portato in scena l’accoglienza _ quella sì che fu accoglienza- garantita più di 70 anni fa da una famiglia di coloni di Trevi che, rischiando la persecuzione dei nazisti, ospitarono per otto mesi in casa una famiglia di ebrei romani, a loro del tutto sconosciuti. Quattro persone in fuga- mamma, papà, una figlia piccola e un bambino. Le porte di quella povera abitazione si aprirono grazie alla mediazione di un sacerdote- don Francesco Billai- mosso da spirito caritatevole e da umana solidarietà. Ecco uno stimolante e nobile esempio di ‘’accoglienza’’: dare agli altri rinunciando a qualcosa di sé. Addirittura, in questo bellissimo caso, mettere a repentaglio la propria vita per salvare altre vite.

Certo, non c’è bisogno di eroismo per rispondere alle facili istanze di quelli che, a parole, incitano a ‘’dare’’. E al contempo bisogna pensarci due volte prima di proclamare, agli altri, il dovere di ‘’dare’’. E lo si fa, magari, senza dimostrare preventivamente che si è in grado di fare ciò che si pretenderebbe dall’altrui generosità.

A quei due coloni di Trevi- Agostino Falchetti e Clementina Martifagni- lo Stato di Israele ha consegnato- alla memoria- le medaglie di ‘Giusti fra le nazioni’’. Il loro nome d’ora in poi, sarà immortalato nel ‘giardino dei giusti’’ a Gerusalemme.

Oggi, mentre il mondo è tormentato da tante ‘ingiustizie’’, fa bene al cuore sottolineare che i valori (delle persone ricche di valori) scuotono la sensibilità e incitano all’emulazione.

RINGHIO

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