Antonio Ceccarini, lo splendido simbolo di un calcio che all’ansia dello stipendio fondeva l’esempio dei vecchi valori

Emozionarsi al cospetto della morte di Antonio Ceccarini non solo vuol dire evocare d’istinto le gesta di un atleta vero, professionalmente esemplare, ma significa anche provare struggente nostalgia per un calcio che sapeva fondere le esigenze dello stipendio con la dedizione ad una causa ricca di valori che, rimuginati oggi, sembrano appartenere ad una preistoria più favoleggiata che autenticamente vissuta. E’ possibile nella serie A di oggi trovare un Antonio Ceccarini che consideri l’antico ‘’attaccamento alla maglia’’ una virtù quasi pari alla concretezza del lauto contratto? I tifosi non esitarono a chiamarlo, con affetto, ‘’il tigre’, proprio rinvennero in lui la grinta felina di un terzino che sapeva sputare sangue in campo e che, al contempo, effondeva la limpidezza dell’impegno anche nel fondamentale clima dello spogliatoio e nelle relazioni con gli ambienti esterni alla squadra, Il Perugia, ‘quel Perugia’ che, da imbattuto, seppe sfiorare lo scudetto, vantava anche nel ‘’Cecco’’ il simbolo vivente della determinazione estrema posta al servizio del talento. Era tutto ben plasmato in quella creatura che, verso la fine degli anni ’70, proponeva allo stupore dell’Italia un dirigente come Franco D’Attoma, un manager come Silvano Ramaccioni, un mister come Ilario Castagner e giocatori come Frosio, Nappi, Vannini, Novellino e proprio Ceccarini intelligentemente pronto a valorizzare con la ‘ferocia’ della professionalità qualità tecniche che, pur essendo rilevanti, certo non gli avrebbero consentito di aspirare alla Nazionale. Il fatto è che Antonio voleva bene al mestiere, ai compagni, ai tifosi. A chiunque fosse in grado di accompagnare apprezzare il suo entusiasmo. Non uno, davvero neanche uno, che abbia ‘chiacchierato ‘ alle spalle del ‘tigre’. Tutti lo hanno ammirato: serio e integro a 360 gradi. E ala storia si è consegnato segnando all’Inter, addirittura al 90’, il gol che salvò l’imbattibilità della squadra.

Prima di vestire la maglia del ‘grifo’ era stato uno dei cardini del Catania condotto da Guido Mazzetti. Il loro è stato un rapporto non solo tecnico: anche umano. Di profonda e reciproca stima.

In anni recenti è stato imprenditore del tessile, affiliato alle duttilità commerciali di Brunello Cucinelli.

Poco più di due anni fa rilasciò un’intervista eloquente testimonianza del suo amore per Perugia: ‘’Ho ricevuto tanto affetto e l’ho ricambiato in ugual misura. ’Da quasi trenta anni gestisco un laboratorio che opera per la ‘’Brunello Cucinelli. Lavoro parecchio e bene. Comunque l’amore di sempre non l’ho azzerato. Quando posso continuo a essere un tipo da stadio.

– ‘’Quando posso, si. Non ho visto il Gubbio, però col Benevento c’ero. I campani sono squadra forte e quadrata: averli battuti vuol dire avere incoraggianti prospettive’’.

– Mio figlio Matteo è frequentatore assiduo della curva nord. Fa un tifo perfino fuori dalle righe. Lui è entusiasta e fiducioso’Il calcio dei nostri giorni stronca sogni non adeguatamente programmati, rifiuta i nababbi sgonfi, taglia fuori gli improvvisatori che hanno da dedicargli risorse economiche e tempo. In questo Perugia scorgo discrete premesse, tuttavia mi chiedo, anche un po’ incacchiato, perché al chiacchiericcio dei soloni di corso Vannucci non corrisponda mai la concreta adesione alle esigenze di una squadra di calcio che vuol crescere. Il medesimo rimprovero lo muovo alle Istituzioni pubbliche: tante parole, nessun fatto. Pronte a salire sul treno del vincitore. Mi chiedo perché da anni Perugia si faccia colonizzare da chi viene da fuori. Persone brave e da applaudire, ma i perugini dove sono?’’.

RINGHIO

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