D’ALEMA. L’ETERNO RITORNO

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Le sospette esternazioni anti renziane di Massimo D’Alema, avvenute subito dopo il disco verde per la poltrona europea di Federica Mogherini, non devono trarre in inganno. Da stratega cresciuto alla scuola del Pci e con un occhio alla cattedra andreottiana, D’Alema lascia che il dubbio su una sua malevolenza per la definitiva esclusione da un incarico di politica estera che sarebbe stato a lui molto congeniale si alimenti e fuorvii l’attenzione dal vero problema che la sua presenza, il suo ritorno, la sua ombra sono in grado di suscitare. Con un libro sotto braccio vecchio ormai quasi di un anno (del suo Non solo euro si parlava già all’inizio del 2014, quando lo scossone di Renzi alla vecchia quercia europea era ancora impronosticabile), con l’andatura da imperturbabile “uomo in frack”, con i contraddittori di sempre (a Bologna due giorni fa aveva san Pier Casini), agitando lo spettro di Berlusconi come se l’ex Cavaliere fosse ancora un protagonista della vita politica italiana, D’Alema si porge alle telecamere come se niente fosse cambiato rispetto ai tempi della sua uscita di scena, che non si sa, effettivamente, a quando datare. Questa eternità – ormai sulla strada di essere vagamente andreottiana – della presenza di D’Alema sul quadrante della politica italiana ed europea costituisce il vero problema delle sue dosate ri-apparizioni, del centellinato suo dispensare gocce dell’immagine di sempre possibile uomo della provvidenza socialista e democratica. Quando lo si vede in televisione, non si può fare finta di credere davvero al suo “buen retiro” fra Narni e Otricoli. D’Alema non è un santone, un guru, un saggio, un “senatore” di Roma antica, come qualcuno potrebbe credere.

Quando penso a lui, mi sorge spontanea la domanda: “Se Bersani avesse saputo fare tesoro delle carte che il destino gli porgeva, quest'uomo, D'Alema, che non riesce a ispirare bonomia nemmeno invecchiando, quanto potere si sarebbe preso in un governo capace di fare a meno della schiera dei giovani renziani e, soprattutto, di questo, ai suoi occhi, stranissimo primo ministro che potrebbe essere suo figlio?” E mi dò una risposta che parte proprio da quest'ultima incursione anagrafica. Nel 1975, quando è nato Matteo Renzi, Massimo D'Alema era perfettamente in grado di contribuire a procreare rampolli oltre che manovre politiche. Fuori dell'anagrafe, con questo ragionamento andiamo a finire nel pieno del rivolgimento delle generazioni dei figli contro i padri – politici – che costituirà sempre più l'asse interpretativo della scena italiana, quando si potrà fare la storia degli ultimi vent'anni. Se Craxi è stato un caso a sé, un Termidoro di agghiacciante lucidità, la strada che si è spalancata davanti a Berlusconi ha portato diritto, fra l'altro, al fenomeno della defenestrazione dei padri: a destra, l'hanno tentata, facendosi davvero male, Fini e Casini, a sinistra lo scontro è avvenuto sul campo neutro del PD, ma non è stato meno cruento. Renzi, alla fine, non si è fatto male, tutt'altro. Vincendo, oltretutto, ha saputo sfruttare tutta la vanagloria e la boriosità intellettuale di cui sono capaci i vecchi leader del vecchio Pci, da Veltroni a Bersani a D'Alema, appunto, tutte persone alle quali basta lasciare intatto il carisma parolaio e la flemma dei giovani sessantottini che un po' tutti sono stati per lasciarli convinti di poter riemergere, un giorno, caso mai quello scriteriato di giovane scout dovesse fallire, lui e tutti i trenta-quarantenni che lo accompagnano. Così naviga Massimo D'Alema, anche adesso che ha venduto la sua barca a vela per investire nella produzione di vini che qualcuno si spinge a credere possano qualificare l'Umbria. Il vento delle colline umbre sospinge la sua corsa, egli è nel tempo della vendemmia, attende la vendemmia come scopo precipuo del suo essere culturale e politico, imprenditoriale e intellettuale. Confortato da tanta pace umbra - senza però perdere il piglio tagliente delle sue domande inquisitorie e delle sentenze emesse a labbra affilate – ragiona sicuramente ancora di una vendemmia anche governativa, che si possa ascrivere al suo talento, di lontana ascendenza maghrebina, costretto a venire a patti con la parlata romagnola di Bersani, notoriamente più autoctona. Ecco, questo sarebbe stato lo scenario demo etno antropologico di un quasi certo, due anni fa, governo Bersani. Un governo dei padri, degli avi e degli antenati, dai movimenti lenti, sensato, dabbene, pieno di teoremi europei anche se tutto cuore e società, sornione ma non algido alla Monti. Intanto, mentre l'Italia brinda con Renzi, quel governo invecchia nei vini prodotti fra Narni e Otricoli, per i sogni di tutti i dalemiani sparsi per l'Umbria e per l'Italia.

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