DIS…CORSIVO. 3 DICEMBRE 1914

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Con tempestività senza uguali, si è messo mano da tempo alle manifestazioni di ogni tipo per riflettere sul primo conflitto mondiale, a cent’anni dal suo scoppio. L’impressione che si stia mettendo su, anche in Umbria, un grande mercato di cartoline e di cimeli vari, tutti perlopiù risalenti al periodo maturo, centrale, della guerra, è notevole. Capisco, al limite, l’attivismo di ricercatori e archivisti della linea del fronte sulla quale, già nel 1914, pur col neutralismo italiano, si era a un passo dalla partecipazione diretta al conflitto, si era in qualche modo invasi dall’atmosfera belligerante.

Esattamente cento anni fa, gli austro-ungarici, impegnati sul fronte russo, si limitavano a fronteggiare il fronte italiano contando sulla cintura delle fortezze intorno a Trento, per fermare eventuali avanzate italiane, con un ridottissimo numero di soldati. Il fronte delle Dolomiti era addirittura praticamente sguarnito, anche se ben presto fu attrezzata una linea difensiva arretrata rispetto al confine, contando sulle favorevolissime dorsali montuose del Logorai e delle Dolomiti di Sesto.

Se, allora, gli studiosi trentini fanno bene, in uno spirito di ricerca comune con i loro colleghi austriaci, a perfezionare lo stato del dibattito storico sul clima bellico, o che si preparava ad essere bellico, di cento anni fa, noi qui, in Umbria, che cosa abbiamo mai da scrivere e da documentare per ricordare la corrispondenza esatta di un centenario? Perché non siamo in grado di aspettare e bruciamo le tappe di una rievocazione che sa molto di presenzialismo accademico e di protagonismo archivistico?

Si risponderà che gli input sono venuti da Roma, che ci dobbiamo ormai considerare eredi di una guerra durata dal 1914 al 1918 e non più, come per una specie di rinato nazionalismo storiografico abbiamo sempre cantilenato sui sussidiari delle scuole elementari, dal 1915 al 1918.

Tutto molto esatto e corretto. Ma perché, allora, non approfittare della periodizzazione, che ci integra nel primo conflitto mondiale già dalla fase del nostro neutralismo, per cominciare ad approfondire, lentamente e senza fughe in avanti, le tendenze di fondo della società e della politica italiane che si rispecchiano nella nostra storia, contabilmente esatta, del centenario che fa data, come si dice, a partire, se non lo si è fatto per il prima, dall'inverno di cento anni fa? Il tempo dei cimeli, del sangue, dei fanti dell'esercito del Piave, verrà dopo, ma adesso, allora, perché non parlare di come eravamo esattamente cento anni fa, di quanto l'opinione pubblica si preparasse, o fosse preparata, a un intervento nel conflitto?

Esattamente cento anni fa e - la data è di quelle da ricordare - si verificava un punto di svolta nel cammino dell'Italia verso l'ingresso nella guerra. Il 3 dicembre 1914 il governo Salandra II veniva presentato alla Camera. Il nuovo gabinetto, con Sonnino agli esteri e Carcano al Tesoro, era ormai uno strumento in mano al Presidente del Consiglio e Ministro degli interni per affrontare i preparativi bellici necessari.

Ha senso, oggi, ricordare questo passaggio più che preparare mostre complessive sui cimeli umbri della grande guerra. Ha senso, oggi, anziché affrettarsi a celebrazioni d'insieme, soffermarsi sui movimenti dell'opinione pubblica, cercare di entrare nei meccanismi mentali di un popolo in attesa di grandi eventi.

Il 3 dicembre 1914, Salandra fece un appello, il primo grande appello, alla “concordia italiana”, affermando con perentorietà: “I diritti e le aspirazioni dell'Italia saranno affermati!”. E il consenso che ne ricavò fu pressoché totale, “ad eccezione” - come scrisse L'Unione Liberale - “dei nostri socialisti ufficiali che oggi avevano il muso più lungo del solito e di pochi repubblicani inaciditi nella pregiudiziale e nell'isolamento politico”.

Questo primo, piccolo capitolo di una storia tutta da “ripassare”, si ferma qui. Ne seguiranno altri, per rimetterci su un percorso, oggi svelato e compiuto, come se ancora fosse una cronaca in sviluppo lento e costante. Non è così, forse, che la storia può avere un senso meno accademico e dialogare più da vicino con la contemporaneità politica e sociale che ci occupa e preoccupa?

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