DIS…CORSIVO. APOLOGO DEL PANE DI MEZZO MONDO

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Lentamente, ma progressivamente, le cose erano cambiate nel paese dell’ape regina. Il pane che il laboratorio della fornaia sfornava ogni notte non era più sufficiente per una popolazione aumentata e, soprattutto, diventata multietnica.

Un altro panificio era sorto e, via via, diventava sempre più concorrenziale. L'ape regina si dava da fare in mille maniere, creandosi alleanze commerciali valide con i distributori e i dettaglianti. Aveva, però, un difetto: chiusa nel suo fondaco, da brava ape regina, aspettava lì dentro che la gente affluisse nel negozio a comprare il suo pane. Con le lavandaie, col popolo, con la gente o come li vogliate chiamare, i cittadini, non andava a parlare. Contava sul suo nome, sulla tradizione del suo negozio, ma ormai quelli che, sempre meno, arrivavano al bancone di vendita lo facevano quasi svogliatamente, per inerzia.
L'altro forno, a modo suo, era diventato appetibile. L'aveva aperto il figlio di un marchese ormai decaduto che, a dispetto della tradizione aristocratica di famiglia, aveva saputo inventarsi imprenditore.
Era un uomo alto, allampanato, aveva in faccia e sulle braccia il colore esangue della farina. Il pane, però, gli veniva bene, meno calorico di quello dell'ape regina, ma pur sempre fragrante e stuzzicante per qualche pezzatura inedita, che in paese non si era mai vista.
Al bancone del fornaio allampanato si presentavano, così, sempre più clienti, in parte sottratti all'ape regina, in parte clienti del tutto nuovi, gente di campagna che fino ad allora il pane ancora se lo faceva in casa.
E poi c'era uno spicchio consistente di clientela che né l'ape regina né il nuovo fornaio sapevano attrarre. O, meglio: c'erano molti immigrati, in paese, che volevano il pane della terra da cui provenivano e nessuno dei due panifici riusciva ad attrezzarsi per questa necessità.
Non che non lo sapessero progettare e realizzare, il pane mediorientale, africano, dell'Europa dell'est. Se però non si mettevano nell'impresa era perché la gente del paese, quelli che andavano a comprare dall'una o dall'altro, non vedevano più di buon occhio la marea crescente di immigrati d'ogni colore che risiedeva nel paese. I fornai temevano che, accontentando gli stranieri, i locali si sarebbero ribellati contro di loro, non avrebbero comprato il loro pane, né dall'una né dall'altro.
Così, la situazione degenerava, perché gli immigrati, affamati e insoddisfatti per il livello di accoglienza, cominciarono a vivere, nel paese in maniera del tutto disordinata. Molti provocarono incidenti, ribellioni, si dettero ai furti e alla malavita. Il clima di illegalità era diventato pesante, né valevano a svelenirlo i molti immigrati ormai integrati da almeno una generazione nella vita del paese.
I forni, quanto a clientela, ormai si equivalevano. Ai loro danni non c'era l'assalto di manzoniana memoria, ma c'era chi, in paese, fra la gente, minacciava l'imminenza di questo pericolo da parte dei disperati d'ogni tipo e d'ogni età che si vedevano bivaccare negli angoli e nelle piazze, di giorno e di notte.
I difensori a oltranza dell'ordine e della quiete pubblica avrebbero voluto risolvere la faccenda per le spicce, ma si limitavano a terrorizzare gli animi dell'opinione pubblica. Ce n'erano altri, invece, che avrebbero sanato l'illegalità dirottando su tutti i poveracci, locali e immigrati, del paese i guadagni che provenivano dai due forni.
La gente, così, era letteralmente frastornata, non sapeva più che pane comprare, mangiava senza gustare più le fragranze né dell'ape regina né del nuovo fornaio.
L'ape regina, padrona del campo, fu costretta allora a prendere delle iniziative e prima di tutto si presentò in piazza, per discutere pubblicamente, con un gruppo di lavoranti che aveva eletto a suoi consiglieri. Si presentò in piazza, dove era accorso anche l'allampanato fornaio, anche lui con i suoi lavoranti di fiducia. Quelli dell'ape regina erano, anche se per poco, in maggioranza. Decisero in ogni modo di incontrarsi in permanenza, per tutto il tempo necessario a trovare un rimedio ai problemi degli immigrati. Le autorità costituite lasciarono fare, anzi dettero la loro approvazione, anche da Roma, a quanto avveniva sulla piazza più grande di quel paese.
L'ape regina e il nuovo fornaio sembravano davvero animati dalle migliori intenzioni, ma gli aiutanti che s'erano scelti si dimostrarono meno brillanti del previsto e il lavoro si dovette ricominciare più volte, con gravi perdite di tempo, di risorse e di energia.
Ognuno, intanto, era ritornato a fare il suo pane e una soluzione fu trovata solo quando la cosa ormai sembrava impossibile. Si decise che l'economia di quel paese sarebbe stata fatta crescere non sui diagrammi della burocrazia e sugli interessi della finanza, ma sulla quotidianità dei problemi, rinunciando tutti a farsi la guerra sulla pelle dei poveri cristi locali e di quelli venuti da non si sa dove. Tutti, perfino l'ape regina, rinunciarono a un po' del loro potere e si misero a pensare, per la prima volta, al lavoro degli altri come se in ballo ci fosse una propria occupazione, produttiva e del tutto estranea a quella politica.
Non ci fu più bisogno di minacciare di sparare sui delinquenti, non ci fu più bisogno di fare una carità di Stato ai tantissimi, specie giovani, disoccupati del paese.
Il paese si riempì del pane di mezzo mondo, i lavoranti dei due forni insegnarono a tutti e da tutti impararono. Le autorità costituite furono molto contente del lavoro che si sviluppava nel paese dell'ape regina e capirono che solo facendo lavorare insieme forni diversi c'era da nutrirsi per tutti.

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