DIS…CORSIVO. BENIGNI: EMENDAMENTI AL DECALOGO

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / E se, anziché rileggere le Tavole della Legge, Benigni avesse ripercorso i titoli dei suoi film, quelli da regista, e vi avesse collegato la citazione dei suoi lavori poetico-satirico-teatrali? Il decalogo sarebbe venuto fuori ugualmente e sarebbe stato, come effettivamente è: “Tu mi turbi” (1983), “Non ci resta che piangere” (1984), “Il piccolo diavolo” (1988), “Johnny Stecchino” (1991), “Il mostro” (1994), “La vita è bella” (1997), “Pinocchio” (2002), “La tigre e la neve” (2005), più “Tutto Dante” (a partire dal 2006) e, per la Rai, “La più bella del mondo” (2012), la serata-evento dedicata alla Costituzione.

Dieci titoli, dieci opere, dieci performances da antologia legate per tutta una vita dal filo sottile di un surreale confronto fra l'aspirazione alla sbadataggine esistenziale, l'equilibrio comico dell'esistenza, il richiamo della morale e la suggestione della storia.
Mentre il lodatissimo e seguitissimo “Dieci Comandamenti” di lunedì e martedì scorsi ha funzionato, senza offesa, come un sistema di emendamenti in libertà puliti, non blasfemi, laici, ma rivelatori, anche, di un animo non insensibile alle domande ultime, Benigni avrebbe potuto raggiungere lo stesso effetto popolare descrivendoci la sua commedia ultratrentennale ripartendo proprio da quel “Tu mi turbi” nel quale il suo pensiero un certo dialogo con Dio cercava di instaurarlo. Nei quattro episodi del film, Benigni è di volta in volta, col nome di Benigno, un pastore che deve fare da baby-sitter al piccolo Gesù, un giovane che vaga disperato per la città, vestito con uno smoking, in cerca del suo angelo, un disoccupato alla ricerca di una casa e un soldato a guardia del monumento al Milite Ignoto che filosofeggia sull'esistenza di Dio in mezzo a mille nonsense scambiati con il soldato addetto allo stesso servizio.
I “Comandamenti” intorno ai quali Benigni ha costruito la sua scena televisiva natalizia sono tutti già sparsi e sceneggiati nella sua filmografia di peso, come se un comando interiore, originario, avesse sempre spinto l'attore a misurarsi con domande più grandi di lui e con imperativi superiori alla coscienza. Erano domande e imperativi che, finora, Benigni non aveva il coraggio di porsi esplicitamente, ad uno ad uno, in una rassegna di pensieri che fosse anche, sotterraneamente, un fare i conti con tutta la vita, i suoi successi e le sue amarezze, le sue conquiste e i suoi punti morti.
Questo, invece, mi pare proprio il senso del suo recentissimo evento televisivo: come Dante lo aveva turbato al punto tale da fargli riscrivere parti intere della “Commedia” ad uso del suo personale bisogno di storia e di bellezza, così i “Comandamenti” li aveva dentro dall'infanzia come un bisogno di fede e di autenticità. E così ce li ha presentati, non per far divertire il pubblico o per fare l'istrione a tutti i costi, ma per portare in scena se stesso, per mostrarsi, nudo, di fronte alla riflessione che tutte le riassume: “E non abbiate paura di morire, ma di non cominciare mai a vivere davvero. È qui l'eternità”.
Questo non è un emendamento ai temi della religione e della chiesa, del sesso, dell'adulterio e della corruzione che hanno contraddistinto, fra i tanti, la lettura del Decalogo da parte di Benigni. Questo è uno spaesamento dell'anima vero e proprio, posto al riparo, temporaneo, della legge dell'amore e dei codicilli della felicità: “Saltate dentro all'esistenza ora, perché se non trovate niente ora, non troverete nulla mai più”.
Benigni sa di avere composto, dal 1983 ad oggi, un suo personale decalogo cinematografico, ma sente profondamente che tutta l'ispezione dell'animo umano tentata con la sua originalissima commedia rischia di non averlo fatto salire a bordo dell'esistenza. E sa anche che l'eternità non è qui, nel presente storico della maturità: altrimenti, perché mai avrebbe letto Dante con tutto l'accanimento che lo ha portato col suo tour in giro per il mondo? Sa benissimo che l'eternità è esattamente dovunque noi non siamo, anche mentre viviamo. Dove siamo noi non può esserci l'eternità, a meno che noi non ci facciamo da parte e lasciamo l'incomodo a qualcun altro, già predestinato a vivere al nostro posto. In questo senso, sì, forse già solo vivendo veramente siamo eterni, ma bisogna avere il coraggio di accettarci altrove. E, senza scomodare la morte, basterebbe tornare col pensiero a quella fuga nel tempo che tanto ci ha fatto piacere vedere attraverso la storia del bidello Mario e dell'insegnante Saverio di “Non ci resta che piangere”, piombati non si sa come a Frittole, un immaginario borgo toscano “nel 1400, quasi 1500”.

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