DIS…CORSIVO. IL CIELO STELLATO DI MATERA

Maurizio Terzetti / Ai vincitori, si sa, bisogna rendere onore. Domani riparleremo della valutazione data al progetto di Perugia, ma oggi è necessario rendere omaggio a Matera, città prescelta per essere designata Capitale europea della cultura per il 2019. Lo faccio con un pezzo di grande letteratura, un brano da Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi.
“- Arrivai a Matera, – mi raccontò, – verso le undici del mattino. Avevo letto nella guida che è una città pittoresca, che merita di essere visitata, che c’è un museo di arte antica e delle curiose abitazioni trogloditiche. Ma quando uscii dalla stazione, un edificio moderno e piuttosto lussuoso, e mi guardai attorno, cercai invano con gli occhi la città. La città non c’era. Ero su una specie di altopiano deserto, circondato da monticciuoli brulli, spelacchiati, di terra grigiastra seminata di pietrame. In questo deserto sorgevano, sparsi qua e là, otto o dieci grandi palazzi di marmo, come quelli che si costruiscono ora a Roma, l’architettura di Piacentini, con portali, architravi sontuosi, solenni scritte latine e colonne lucenti al sole. Alcuni di essi non erano finiti e parevano abbandonati, paradossali e mostruosi in quella natura disperata. […]
Allontanatami ancora un poco dalla stazione, arrivai a una strada, che da un solo lato era fiancheggiata da vecchie case, e dall’altro costeggiava un precipizio. In quel precipizio è Matera. Ma di lassù dov’ero io non se ne vedeva quasi nulla, per l’eccessiva ripidezza della costa, che scendeva quasi a picco. Vedevo soltanto, affacciandomi, delle terrazze e dei sentieri, che coprivano all’occhio le case sottostanti. Di faccia c’era un monte pelato e brullo, di un brutto colore grigiastro, senza segno di coltivazione, né un solo albero: soltanto terra e pietre battute dal sole. In fondo scorreva un torrentaccio, la Gravina, con poca acqua sporca e impaludata fra i sassi del greto. Il fiume e il monte avevano un’aria cupa e cattiva, che faceva stringere il cuore. La forma di quel burrone era strana: come quella di due mezzi imbuti affiancati, separati da un piccolo sperone e riuniti in basso in un apice comune, dove si vedeva, di lassù, una chiesa bianca, Santa Maria de Idris, che pareva ficcata nella terra. Questi coni rovesciati, questi imbuti, si chiamano Sassi: Sasso Caveoso e Sasso Barisano. Hanno la forma con cui, a scuola, immaginavamo l’inferno di Dante. E cominciai anch’io a scendere per una specie di mulattiera, di girone in girone, verso il fondo. La stradetta, strettissima, che scendeva serpeggiando, passava sui tetti delle case, se così quelle si possono chiamare. Sono grotte scavate nella parete di argilla indurita del burrone: ognuna di esse ha sul davanti una facciata; alcune sono anche belle, con qualche modesto ornato settecentesco. Queste facciate finte, per l’inclinazione della costiera, sorgono in basso a filo del monte, e in alto sporgono un poco: in quello stretto spazio tra le facciate e il declivio passano le strade, e sono insieme pavimenti per chi esce dalle abitazioni di sopra e tetti per quelle di sotto. […]
Eravamo intanto arrivati al fondo della buca, a Santa Maria de Idris, che è una bella chiesetta barocca, e alzando gli occhi vidi finalmente apparire, come un muro obliquo, tutta Matera. Da lì sembra quasi una città vera. Le facciate di tutte le grotte, che sembrano case, bianche e allineate, pareva mi guardassero, ci buchi delle porte, come neri occhi. È davvero una città bellissima, pittoresca e impressionante. C’è anche un bel museo, con dei vasi greci figurati, e delle statuette e delle monete antiche, trovate nei dintorni. Mentre lo visitavo, i bambini erano ancora là fuori al sole, e aspettavano che portassi il chinino”.
E, a puro titolo di curiosità, riporto una breve, dotta disquisizione sull’origine del nome dei Matera traendola dal volume di Francesco Paolo Volpe Memorie storiche di Matera (1818): “V’ha chi opina, che Matera tragga origine dal greco μετεωρον, che suona Cielo Stellato, e che siale stato imposto un tal nome o da Ottaviano Augusto, che l’abbia riedificata, dopo essere stata distrutta dalle armi romane, o dal medesimo popolo, che dipartito dietro quella distruzione, in due parti, una sul colle, e l’altra nella valle, riedificolla sotto cotesto nome, volendo, sia l’uno, sian gli altri, alludere a quella foggia di Cielo stellato, che offrono agli occhi degli spettatori i lumi notturni dalle due valli”.
Non convinto, però, da questa come da altre etimologie, lo studioso preferì optare per un derivazione del nome da quello del console Quinto Cecilio Metello Macedonico, un secolo e mezzo prima della nascita di Cristo. Vorrà dire che il Cielo stellato è rimasto come augurio per il presente e per il futuro e che, dopo molti patimenti, ha portato fortuna alla città.

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