DIS…CORSIVO. GLI INUIT

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Non vengono da una tradizione, non lavorano per un futuro. Sebbene idealizzati da una inevitabile antropologia e esposti ai rischi dell’unico tempo che conoscono, il presente fatto di alcool, suicidi e anche un po’ di turismo, gli Inuit, che abitano in Groenlandia, continuano a essere un popolo invidiabile per la capacità di non dover memorizzare una storia e di non dover lavorare per accumulare riserve in vista del domani.

Di politica, a casa loro, non si parla, e questo è il pregio che dovrebbe farceli amare in maniera somma. È chiaro, infatti, che nessuno di noi può prescindere dal relazionarsi politicamente, ma il lontano esempio degli Inuit, o di qualche altro popolo che vive nelle loro condizioni, dovrebbe pur servirci da regolatore della smodata passione per il verbo della politica che aleggia in ogni parte del mondo.
Poniamo, per ipotesi, che i simpatici Inuit, quelli che si strofinano il naso per salutarsi e per augurarsi la salute, raffigurino noi stessi di qualche buon tempo fa. La cosa che mi colpisce è che il loro linguaggio si è specializzato in maniera esponenziale nel nominare l'elemento dominante del loro ambiente: la neve. Gli Inuit hanno molte parole per descrivere le diverse forme e condizioni della neve. C’è la neve che scende, la neve che segna la fine della bella stagione, la neve appena caduta, la neve soffice su cui si fa fatica a camminare, i cumuli di neve morbida, la neve dura e cristallina, quella che si è sciolta e poi ricongelata, la neve su cui è piovuto sopra, la neve farinosa, la neve trasportata dal vento, la neve con cui il vento copre gli oggetti, la neve dura che cede sotto il peso dei passi, la neve fusa per essere bevuta, la neve ammucchiata e la neve più adatta a costruire gli iglù. In inuktitut – la loro lingua - ci sono anche molti verbi con la radice “neve”, come scrollarsi la neve di dosso, lavorare la neve con un qualsiasi attrezzo, o mettere un po’ di neve in una bevanda calda per raffreddarla.
La politica, penso, non è mai stata alla radice della vita in comunità. Inutile convincersi del contrario. E nemmeno la filosofia.
Se alle origine del nostro essere umanità, come testimoniano ancora gli Inuit ai giorni nostri, c'è una capacità gigantesca e capillare di dare un nome sempre diverso a una sostanza sempre uguale e per lo più bianca come la neve, traendo felicità da questo nominare il mondo sotto la neve, la politica che cosa ha inventato di nuovo, con millenni di storia sulle spalle, se si diverte a nominare la solita cosa, per lo più anch'essa senza colore ma non nivea, con perifrasi diverse e circonlocuzioni dotte?
Alla radice, certo, e non durante la sua evoluzione, la fantasia degli uomini è più ricca nell'accostarsi alla natura che al costruire società. L'arte e la poesia, che servono solo a ristorare l'animo, sono più produttrici di fantasia di quanto possa fare la politica, che deve, invece, inventare gli Stati e regolare le comunità.
Se ancora non è tardi, e senza buttare a mare la politica, si potrebbe provare a imparare, specie in piccole realtà regionali, qualcosa dal modo in cui gli Inuit continuano a nominare il mondo dagli elementi più familiari e veri e, cosa più importante, cosa che dovrebbe essere compito della politica, a includere loro stessi nel mondo.

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