DIS…CORSIVO: L’ARRINGATORE

Maurizio Terzetti / Nel bimillenario della morte di Augusto, che pure Perugia flemmaticamente e a dispetto dello sterminio compiuto da Ottaviano ricorda, viene in mente, a causa di alcuni proclami che dal chiuso di Palazzo Cesaroni rimbalzano per eco sulla Piazza d’Italia, un altro cimelio di stimati altri duemila o più anni appartenente alla regione dell’Umbria. Benché ancora contesa, quanto al suo ritrovamento, fra la perugina Pila e Tuoro sul Trasimeno, la statua dell’Arringatore, che se ne sta buona buona nel Museo Archeologico di Firenze, ispira l’unità delle intenzioni oratorie di alcune frange della classe politica dell’assemblea regionale umbra.

Chiunque mandi, dall’interno di quell’assise, proclami partecipativi alle forze politiche oggi escluse da Palazzo Cesaroni, ma presenti in Parlamento e potenzialmente destinate a fare parte del prossimo consesso regionale, quello assomiglia in tutto e per tutto ad Aule Metele, è un moderno Arringatore.

Non dubito che, pur senza altri riscontri documentali, l’antico personaggio pubblico al quale è stata dedicata la veristica statua abbia raggiunto la folla con discorsi palpitanti e con qualche ben piazzata e opportunistica figura retorica. L’oratoria ha sempre nascosto sotto espressioni ad effetto situazioni di complessa e causidica derivazione.

Proprio come oggi, che le nobili parole della consultazione allargata in vista della legge elettorale che prima o poi si voterà in Regione ricoprono inevitabilmente interessi di parte e motivazioni inconfessabili. Come, del resto, accade per le forze politiche riunite nella commissione speciale per le riforme di Palazzo Cesaroni.

Solo che gli uomini politici “interni”, impegnati col loro biliardo, non pensano di salire sul balcone centrale del Palazzo del Consiglio per arringare gli esclusi. O meglio: alcuni sì, alcuni credono di essere dei moderni Arringatori e allora giocano due partite: una al biliardo, ben integrati nella macchina consiliare, l’altra sul balcone, presi da eroici furori declamatori.

Ma, allora, che portino fino in fondo questo imperativo della propria coscienza, che facciano gesti eclatanti, traendo ispirazione da quel popolo che, di fuori, in piazza, sappiamo essere capace di salire non solo sui balconi, ma sugli alti tetti dei Palazzi romani.

Per ora, invece, sono state scelte vie più semplici e comode: quelle della comunicazione attraverso la stampa, quelle di qualche mezza colonna, di un’intervista, di parole ispirate alla dignità della carica istituzionale che si ricopre.
Qui, invece, sta il punto, qui la differenza. Se si vuole davvero dare forza a un messaggio che si ritiene diverso da quelli che lasciano filtrare i compassati biliardieri, bisognerebbe riprendere il discorso da dove, ipoteticamente, può averlo lasciato quell’Aule Metele che definiamo Arringatore per eccellenza pur non conoscendosi di lui alcun discorso, solo la fama. E, allora, dovrebbe essere venuto il momento di appassionate orazioni pubbliche, col mescolio di retorica e opportunismo che sempre hanno caratterizzato le orazioni, con voci e gesti che buchino lo schermo, con convinzione, anche se mimata, da paladino e non con paludamenti e formule da dignitario delle istituzioni. Altrimenti, che senso ha tentare di arringare la folla ansiosa di partecipare, che senso ha la pressione su Palazzo Cesaroni, che senso ha coltivare solo la fama, la fama individuale, in uno schieramento politico che fa del protagonismo delle masse la propria bussola? La storia non dà nessuna certezza che, come è stato per Aule Metele, anche senza un discorso tramandato, fra duemila anni – o molti, molti di meno – all’Arringatore di oggi sia riservato l’onore di una statua o il vantaggio di un seggio

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