DIS…CORSIVO. LATINORUM

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Cominciava: “Introibo ad altare Dei”. E, nella traduzione, tutti scoprivano – i dotti e i non dotti – che stavano semplicemente per “accostarsi all’altare di Dio”, ricevendone in cambio la conferma piena di ardore: “Ad Deum qui laetificat juventutem meam”, cioè l’altare era proprio di quel Dio “che allieta la mia giovinezza”.
Cinquant’anni fa, dopo che il 7 marzo 1965 papa Paolo VI ebbe celebrato la prima messa in italiano, a molti può essere sembrato che la traduzione era meno bella dell’originale latino. E non tanto per le parole usate, ma per il suono al quale vite intere di fedeli si erano abituate, tramandandosi di orecchio in orecchio quel piccolo concerto di parole cantilenanti col quale si sostituiva l’incomprensione di fondo dei significati delle formule liturgiche e del dialogo, se così lo possiamo definire, tra sacerdote e fedeli.

La congiura contro il latino era, all’inizio degli anni Sessanta, ancora più ampia di quella che ne decretava l’abbandono in chiesa, durante la messa. Poco più di due anni prima di quel 7 marzo 1965, infatti, era stata approvata la legge numero 1859: il 31 dicembre 1962, questa legge istituiva la nuova Scuola media unificata e faceva un sol boccone dello studio del latino. Da allora in poi, nell’immediato, latino obbligatorio per tutti in seconda media e facoltativo in terza, per chi aveva intenzione di iscriversi poi al liceo classico.

Tutto questo accadeva mentre cominciava per tutti gli studenti, classico o non classico, la lettura dei “Promessi sposi” (rinforzata da un gigantesco sceneggiato televisivo), in cui c’era quell’anello sugli abusi commessi in nome del latino che così bene si saldava a ciò che avveniva ai piedi dell’altare e sui banchi della scuola riformata: “Si piglia gioco di me? – interruppe il giovine – “Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”, chiede Renzo nel capitolo secondo del romanzo, quando Don Abbondio gli enumera in latino gli impedimenti dirimenti in base ai quali non può celebrare le sue nozze con Lucia.

Inevitabilmente, cinquant’anni dopo, qualche riflessione questo crogiolo di riforme e di ideali la stimola e la impone. E le idee sono così tante che faccio fatica a tenerle tutte unite intorno a un solo punto.

Sono però sempre più convinto, oggi, che i fedeli che seguivano la messa in latino cantavano e non pregavano, si concentravano profondamente nei propri pensieri di qualunque genere e non si legavano alla comunità, “conoscevano” una lingua straniera imposta dalla gerarchia come noi, oggi, “conosciamo” l’inglese per via della necessità di storpiare quella lingua quanto ci pare pur di parlarla comunque, specie nelle sedi in cui nessuno ne può fare a meno.

Il latino della messa era qualcosa di sacro, certamente, in cui però confluiva la libera personalità di ognuno, del contadino e del notaio: ognuno apriva la bocca per il balbettio canoro delle parole della liturgia, ma in cuore suo pensava a tanti di quegli affari diversi che se ne potrebbero riempire pagine e pagine di libri, romanzi perlopiù.

Il doversi esprimere in italiano durante la messa non è stato esaltante come scoprire il volgare, ai tempi di San Francesco e di Dante Alighieri. È stato, all’inizio, un gran sacrificio, perché ha tolto spazio alle individualità per farle confluire nella comunità: più difficile, in queste condizioni, esprimere una propria fede intima e privata. Il canto delle parole in latino storpiate in mille maniere è stato piano piano sostituito da corali improvvisate, altrettanto stonate, tenute insieme da alcuni volonterosi con chitarra e armonium.

A scuola, intanto, il latino è stato buttato alle ortiche per sempre, tanto non serviva più neppure in chiesa! Molti, i più anziani, hanno conservato il periodare appreso con le ultime lezioni in licei classici sempre meno titolati; hanno questa ricchezza ma non sanno che farsene, per “cinguettare” non serve. Eppure, come per l’uso che se ne faceva in chiesa, il latino serviva, nella vita di relazione e nella professione, per isolarsi, per ragionare con se stessi nel frastuono della civiltà contemporanea. Almeno di questo si poteva tenere conto, sia nella penombra delle chiese sia nel frastuono dei licei classici d’oggidì!

E, forse, almeno di questa possibilità di concentrarsi si poteva tenere conto anche riguardo al capolavoro di Manzoni, esso stesso, invece, polverizzato a scapito dell’interesse formativo di intere generazioni: brutta fine per un’ opera che aveva protestato contro il “latinorum” e avvantaggiato tanto la messa in italiano quanto la riforma della scuola media!

Quanto a me, infine, non mi vergogno di confessare che in chiesa voglio isolarmi come se ancora vi si parlasse in latino e che fare una versione di latino mi mette in pace l’anima. Quanto al “latinorum”, giro il problema alla politica e alle gerarchie, che in cinquant’anni nessuna riforma ha reso più umane.

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