Dis…corsivo. L’autodromo di Via dei Mille
NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / C’era una volta “la Repubblica” e abitava a Roma in Piazza Indipendenza 11/b. L’ingresso principale di quell’enorme palazzo era situato, però, su una via laterale, che sbuca su Piazza Indipendenza al pari di alcune altre strade della casbah romana che circonda la Stazione Termini: Via dei Mille. Al numero uno di Via dei Mille si prendevano gli ascensori che salivano al quarto piano de “la Repubblica” e, più in alto, del “Corriere dello sport”.
Via dei MIlle forniva l’autentica atmosfera adeguata a quel tipo di giornale che è stata “la Repubblica” degli esordi, il tabloid che in questi giorni di festa per i quarant’anni del giornale pochi hanno potuto, o voluto, ricordare.
Quella di Via dei Mille è una “Repubblica” per reduci, uno studio cinematografico demolito sulle cui macerie piove tristemente, ha scritto Paolo Guzzanti.
Il grande show con cui sono stati salutati i quarant’anni del giornale non ha illuminato i suoi esordi, ne ha avuto timore, si è sentito a disagio verso una scena ormai da tempo abbandonata, ha lasciato qualche cuore piangere in disparte: un po’ quello di Guzzanti, e penso anche i muscoli cardiaci di Giampaolo Pansa e di Giorgio Forattini si saranno commossi nel ripensare alla ciurma arrembante del bastimento di Scalfari nei suoi primissimi anni di vita.
Quello che succedeva in redazione, al quarto piano, la gente l’avrebbe saputo e letto il giorno dopo ma, intanto, chi, specie nel pomeriggio, passava per Via dei MIlle, poteva averne qualche avvisaglia nel frastuono della strada e nella vita vissuta che la redazione del giornale travasava in Via dei Mille.
Giorno e notte, durante le pause dedicate fra un pezzo del lavoro e l’altro, il rosso Guzzanti, il dinoccolato Pansa, il vispo Forattini, insieme a tanti altri più giovani di loro e con colleghi ben più compassati di loro, vivevano quella via come se fosse un ufficio di redazione all’aperto. La vivevano – credo – come uno spazio, l’unico, nel quale l’occhio onnipresente e vigile del “fondatore” non poteva raggiungerli. Lui, Scalfari, in Via dei Mille passava con la composta ieraticità con cui sedeva alla sua scrivania di direttore. Ci passava e non si fermava, dunque non poteva nemmeno vedere come si divertivano, in quella casbah romana, i suoi solerti giornalisti.
E la via di svaghi ne offriva come in un emporio dalla ricca offerta: bar, sala per scommesse su corse di cavalli, piccoli negozi di abbigliamento, un parlottio continuo, già multietnico, con il dialetto romanesco che sovrastava ogni altro idioma, tipografi ancora con neri grembiuli che uscivano con le dita sporche di piombo, il guano svolazzante degli storni che da Piazza Indipendenza veniva a depositarsi fino sulle strade circostanti.
E come avrebbe potuto, lo show per i quarant’anni de “la Repubblica”, tingersi ancora di questi colori e animarsi ancora di questi suoni di Via dei Mille? Sarebbe stato come cercare di far rientrare il pubblico presente l’altra sera all’Auditorium del Parco della Musica in una piccola trattoria romana degli anni Settanta del secolo scorso, dove viveva ancora un lampo della Roma accattona di Pasolini e di Franco Citti. Impossibile. Impensabile.
Però, a pensare di passarci adesso per Via dei Mille, così muta e lontana dal clamore della “Repubblica” della terza generazione (Scalfari – Mauro – Calabresi), un’immagine non riesce ad allontanarsi dalla mia mente.
E’ un’immagine rombante, il quadro di Via dei Mille, intorno a mezzanotte, quando le grandi stive della tipografia vomitavano pacchi su pacchi del giornale appena pronto e velocissime barche di spedizionieri – dinamiche Citroen allungate – si riempivano, nella gazzarra simpatica degli autisti, di copie da portare lontano, ovunque per l’Italia.
Dai box di quell’autodromo di Via dei Mille, ogni notte volava via il sogno diverso di una “repubblica” migliore di quella del giorno prima.