Giovanni Bini Cima. “Oggi ho copiato un protocollo intero”

UMBRIA PER SEMPRE. BIOGRAFIE VALORI PERSONAGGI di Maurizio Terzetti / Il poeta Giovanni Bini Cima è nato ad Assisi l’11 aprile 1845 ed è morto a Perugia il 25 novembre 1905. Questo è, dunque, il suo anno: 170 dalla nascita, 110 dalla morte. Una vita breve, la sua, di appena sessant’anni, densa di riconoscimenti e di grandi dolori, pubblici e privati, dedicata principalmente all’attività di poeta riconosciuto a livello nazionale e di traduttore raffinato.
Oggi, naturalmente, sono in pochi a ricordarlo, pochissimi a leggerlo e si contano sulle punta delle dita coloro che conoscono un po’ della sua biografia. Perciò, ripartendo da questa, ricorderò brevemente che Bini Cima, nato da una nobile famiglia di Assisi, ebbe come primissimo insegnante, ad Assisi, lo storico Antonio Cristofani, che a nove anni proseguì gli studi a Perugia, dai Benedettini Cassinesi di San Pietro, e che perfezionò l’istruzione presso un illustre latinista. Questo fu l’unico periodo sereno e fortunato della sua vita. A diciassette anni, infatti, il crollo della fortuna familiare lo costrinse ad abbandonare gli studi. Tutto ciò che riuscì ad ottenere fu un’abilitazione temporanea, in base alla quale gli fu possibile insegnare il greco presso il ginnasio di Assisi. Si sposò con Maria, conosciuta a Perugia, e ne ebbe quattro figli, una famiglia così povera che il poeta dovette adattarsi, nelle ore libere dalla scuola, a copiare carte e rogiti notarili. Lo ricorderà in alcuni versi del 1879: “Per berne un po’ di questo vino schietto, / oggi ho copiato un protocollo intero: / mi cascano le braccia, ho rotto il petto, / sembra il sogno d’un morto il mio pensiero”.
Fu in queste condizioni che, negli anni centrali della sua produzione, riuscì a definire una propria fisionomia poetica, che già nel 1875, appena trentenne, lo faceva annoverare tra le voci più nuove della letteratura umbra.
Si era accorto di lui anche Giosue Carducci, che prima nel 1890 poi nel 1901 gli manifestò in belle lettere il suo pieno consenso, definendolo come “uno dei più grandi poeti viventi”. Ma Bini Cima non aveva né tempo né modo di rallegrarsi: la sua esistenza era troppo amara per dargli la chance di proiettarsi, con questo giudizio alle spalle, sulla scena nazionale, condividendo, in ciò, la sorte di molti altri buoni letterati umbri che – osserva Francesco Guardabassi – “si compiacciono della solitudine e provano, in questo languido abbandono d’ogni spirito d’ambizione, una segreta gioia”.
Né le cose andavano meglio sul piano della vita pubblica. Fervente mazziniano, Bini Cima credeva di elevare, con le sue poesie politiche, un giudizio equilibrato sul rapporto tra monarchia e repubblica in Italia, ma dovette ricredersi e pagare un duro prezzo alla libertà. Scrive Gemma Fortini: “Fu colpito anche dalla persecuzione politica. Nel 1898, mentre continuava il suo insegnamento al Ginnasio di Assisi, ebbe una supplenza di lettere all’Istituto Tecnico. Ma venne privato poi della cattedra avendo egli tenuto, il 13 marzo di quell’anno, un discorso commemorativo per la morte di Felice Cavallotti; in tale occasione alcune frasi erano state ad arte considerate come offesa alla monarchia. Egli, pur repubblicano ad oltranza, aveva tuttavia composto inni per re e principi sabaudi scesi in campo nelle guerre d’indipendenza”.
Il suo tardo peregrinare fra le scuole di Assisi e di Perugia (finì la sua carriera al Liceo Mariotti) fu accompagnato e causato da continui dissapori con gli ambienti nei quali si trovava a vivere: di fatto dovette prendere la via di Perugia, sul finire del secolo e della vita, perché ad Assisi, lasciandosi irretire nelle piccole beghe paesane, “si accapigliava con i pezzi grossi della politica municipale, i quali si rifacevano escludendolo dalla scuola” (Fortini). E a Perugia, solo un paio di mesi prima di morire, non seppe resistere dal mettersi al centro di aspre polemiche: “Nel settembre 1905 si celebrava a Perugia il processo Modugno, al quale intervenivano a gara, con manifestazioni di isterici sdilinquimenti, le signore della città; per tale occasione il Bini diede alle stampe versi di fuoco, davanti ai quali divenivano blande le invettive carducciane per il processo Fadda. Anche questo gli fu causa di amarezze e di persecuzioni” (Fortini).
Moriva, come detto, il 25 novembre di quel 1905, “presso Monte Luce, in una casetta fra gli ulivi” e volle essere sepolto ad Assisi, nel cimitero dov’erano i suoi affetti e nella città in cui era nato da famiglia patrizia.
Lasciava i “Versi” del 1889 e la raccolta “Occidua”, di dieci anni più tardi.
Il suo funerale fu un compendio di clementi ritualità: “Il corteo veramente solenne attraversò via Campo battaglia, quindi voltò per il Corso Cavour e giunto al Frontone si fermò. Quivi sul feretro disse ispirate e belle parole l’assessore Croci che ricordando i gran meriti e le grandi virtù dell’estinto consegnava in nome della città di Perugia la salma al rappresentante del Comune di Assisi; il quale brevemente rispondendo all’Assessore disse che Assisi custodirà con affettuosa cura le spoglie dell’illustre Professore e poeta”.
Parlò anche il professor Tiberi: “Ed è uno schianto nel cuore di quanti ti conobbero il ripensare come ingiusta con te fu la sorte, che pure ti aveva dato nobiltà di natali, ricco censo, gagliardia e bellezza di corpo e genio di poeta, e come pure furono con te ingiusti gli uomini!”.
Sono molti gli aspetti della vita di Giovanni Bini Cima che ne fanno il paradigma della bravura poetica consumata fra i confini provinciali, senza che l’autore abbia potuto inserirsi nel percorso intellettuale del nascente Stato italiano, forse proprio perché portatore di una moralità antica e sognatrice. Se oggi siamo ancora in tempo a confrontarci con il tormento di quell’anima umbra di Bini Cima non lo so: troppo veloce è stata la dimenticanza, troppo rapido il cambiamento culturale di cui l’Umbria intera, non la sola Assisi, può essersi resa inevitabilmente responsabile.
So soltanto che varrebbe la pena provare almeno a leggere le sue poesie per estrarne i sentimenti che ancora oggi ognuno di noi, con la propria formazione, potrebbe condividere. Io, per quanto mi riguarda, oggi mi sono sentito molto, molto vicino a questa strofa, tratta da “Nostalgia” del 21 aprile 1884:

Voglio sognarvi, soavi amori
Coi fior sbocciati di primavera,
Ardenti palpiti, strani terrori
Sorti coll’alba, spenti la sera:
Baci materni, su la mia fronte,
Reduci cari, vi sentirò,
Quando nel sonno l’aura del monte
L’aura dolcissima respirerò.

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