LEVANTE. Considerazioni del mattino DELLA CELERITÀ CON CUI SI CONSUMA LA GLORIA POLITICA

di Maurizio Terzetti
Al tempo della Prima Repubblica i padri politici non erano fatti fuori apertamente per prendere il loro posto, ma se ne aspettava la consunzione e intanto gli si cresceva accanto fino a che i quotidiani non riportavano sempre più notizie dei giovani che dei vecchi e allora si capiva che un passaggio c’era stato, magari velenoso e cruento, ma nessuno, in superficie, era venuto al corrente di quanto accadeva e scopriva la novità della successione come l’ovvietà politica del giorno dopo.
La carneficina di “mani pulite”, l’unica, vera grande rivoluzione italiana, non aveva di mira l’interruzione di questo massacro politico dietro le quinte, ma ben altre questioni economiche e finanziarie.
Un discreto effetto, però, l’ha prodotto anche nel modo in cui si affrontava, durante la Prima Repubblica, la successione, che è diventata di colpo non più paludata, ma condotta con pubbliche esecuzioni capitali.
Forse, per certi aspetti, la figura di Craxi si avvicina molto, in drammaticità, a quella di Aldo Moro: la resa dei conti politica verso il leader del Psi e di mezza Italia ha posto anche il problema della sua successione cruenta e lì, senza averci preso parte da protagonista, ha vinto il fante più lesto o il “più lesto fante” – scriverebbe il poeta ottocentesco – a occupare la scena e a diventare da fante cavaliere, cioè Silvio Berlusconi.
In mezzo a tanto sangue giudiziario, talvolta meno metaforico e più che mai reale, un figlio del craxismo ha approfittato della disgrazia del padre politico e ha costruito un proprio impero di populismo e di cinismo, efficace e condiviso da buona parte dell’Italia per qualche anno, forse venti addirittura.
Verso la fine della gloria politica di Silvio Berlusconi, quando lentamente si è cominciato a porre il problema della sua successione, la carneficina di “mani pulite” si è rimessa in moto, dimentica ormai dei modi urbani e curiali con cui si trattavano questi affari durante la Prima Repubblica.
Si sono presentati in due a contendersi in qualche modo quella successione: Casini e Fini, i quali, non avendo calcolato adeguatamente le risorse infinite del fante diventato cavaliere, ne sono usciti con le ossa rotte, sono di fatto usciti del tutto dalla scena politica nazionale, salvo galleggiamenti miracolosi che tengono ancora in superficie Casini.
Né le cose sono andate diversamente in casa Pd, quando cioè il Pd è nato al termine della lunga e saggia gestazione operata da Prodi. Solo che qui, nella casa del centro sinistra, la successione si è risolta a favore di chi ha chiesto spazio e, con una certa caparbietà, l’ha ottenuto, fino a diventare il leader giovane del partito e di buona parte dell’Italia.
Perché mai, allora, il M5Stelle dovrebbe essere indifferente a questo gioco delle successioni?
Il segnale di Pizzarotti è certo poco più che un segnale di fumo, non corrisponde affatto a nessun tentativo di destabilizzare in chiave successoria il potere di un altro fante diventato cavaliere come Grillo.
Perché, però, Grillo, dovrebbe minimizzare quel segnale e cercare di ridicolizzarlo mettendo una perfida mano sulla spalla del sindaco di Parma con l’augurio di godersi anche lui qualche minuto di celebrità? Non sente, più che altro, che la celebrità ormai non si nega a nessuno e che, semmai, il tratto distintivo delle leadership da qui al prossimo futuro è destinato a essere la celerità con cui certi processi di successione, cruenti e dati in diretta streaming, verranno a a maturazione?
La storia recente dovrebbe ormai avere ben insegnato che saranno eventi lesti, imprevedibili, incontrollabili, con il peso del fato incombente su tutti i partiti – tanto a destra quanto a sinistra – come su una tragedia greca, eventi sui quali, a un certo punto, niente più potrà neppure quella verve comica per mezzo della quale Grillo ha ipnotizzato negli anni gli italiani prima di calare l’asse della sua strategia politica.

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