LEVANTE. Considerazioni del mattino UN CANTAUTORE BARBUTO ALLA MARCIA DELLA PACE
di Maurizio Terzetti
Oggi John Lennon compirebbe 76 anni e, forse, ancora oggi la sua “Imagine” – che di anni ne ha fatti ieri 45 – difficilmente potrebbe essere considerata non dico l’inno, ma almeno la bandiera sonora dominante, della “Marcia della Pace” che in queste ore si sta spostando da Perugia ad Assisi.
Perché dico questo? Semplicemente perché, lungi dall’augurarmi che il popolo dei marciatori canti la celebre canzone come una litania durante il percorso, vorrei che l’intero progetto della “Marcia” fosse un po’ meno austero e politico di quello che continua ad essere, un po’ più colloquiale – nei toni della sua comunicazione, nei suoi slogan , nella sua poesia capitinana – verso i sognatori d’ogni latitudine, verso gli ammalati di solitudine che ascoltano ancora solo la radio, verso chi sente – e io sono tra questi – che attraversare oggi la campagna umbra non dà le suggestioni che poteva riservare a Capitini nel 1961 ma, semmai, le trae, quelle suggestioni, da una melodia universale e struggente, ma non per questo globalizzante o intimistica, come “Imagine”.
Il corredo musicale della “Marcia” del 1961, riferito chiaro chiaro dallo stesso Capitini, era il seguente: “C’erano canti: un cantautore barbuto, il musicista Fausto Amo dei, insieme con altri cantava canzoni della serie di ‘Cantacronache’, tra cui il canto di pace di Italo Calvino ‘Dove vola l’avvoltoio’, e strofette suggerite lì per lì da Franco Fortini”.
La storicizzazione della “Marcia” fa capire proprio questo, che mentre Capitini aveva visto giusto nel voler raggiungere, con il corteo, molta più gente di quella che vedeva riunirsi nei convegni intellettuali sulla nonviolenza che organizzava, il nucleo estetico, sensoriale, visivo ed emozionale della “Marcia”, sia allora che c’era la campagna umbra per la quale era progettato sia ora che quel paesaggio è stato sostituito da altre componenti, rimaneva dotto e congressuale, politico e intellettuale, popolare grazie al pur bravissimo Fausto Amodei ma destinato alla nicchia cantautorale di sinistra da cui solo Fabrizio De André riuscirà poi a toglierla abbondantemente anche se non del tutto.
Italo Calvino, ad esempio, ha dato un testo – ‘Dove vola l’avvoltoio’ – che De André saprà trasformare nella ‘Guerra di Piero’: da un lato il testo dello scrittore di razza che aiuta la politica e rimane nella sua nicchia, dall’altro il testo e la musica di un solitario cantautore cinico e dolente che, però, sullo stesso tema fora il pubblico di mezzo mondo senza poter essere accusato di svilire, con la sua canzone, le emozioni per le quali i marciatori di ieri e di oggi si mettono in cammino. E, per fortuna, della strofette “suggerite lì per lì da Franco Fortini” dovrebbe essersi persa la traccia: sarebbe stato molto difficile a chiunque toglierle dal loro dogmatismo esasperato.
Non sono, le mie, considerazioni inattuali: la “Marcia” di oggi avrà tanti meriti, ma di certo non ha aure emozionali e corde sonore che facciano accapponare la pelle ai solitari di mezzo mondo in cerca del passo giusto per unirsi a un corteo della pace.
E non è con gli slogan aggiornati di anno in anno per stare dietro alla contemporaneità della tragedia mondiale che si toccano le corde del cuore: quegli slogan sembrano più giaculatorie che vive esortazioni a darsi da fare per sperare.
Continuare così sarebbe, del resto, fare un torto allo stesso Capitini, che non voleva una processione di penitenti (peccato, però, che neanche lui abbia colto, in ciò, l’autentico ruolo svolto nel Medioevo dai “Laudesi”) ma una gioiosa fonte di musicale abbandono alla terra di san Francesco.
Chissà se gli sarebbe piaciuta “Imagine”? Certo, in ogni caso, non avrebbe disdegnato John Lennon, anche lui un “cantautore barbuto”.