RICORDI PRESIDENZIALI. GIORGIO NAPOLITANO

di Maurizio Terzetti / Il sostanziale pareggio elettorale del 9 e 10 aprile 2006 è stato la base su cui si è espresso il larghissimo voto che ha portato al Quirinale Giorgio Napolitano, ma, nello stesso tempo, è stato il funesto presagio delle turbolenze alle quali quel mandato presidenziale andava incontro.

La vera resa dei conti si sarebbe avuta nelle elezioni politiche di due anni dopo, che videro il Popolo della Libertà sconfiggere il Partito Democratico e aprirono quel lungo contenzioso con l'Europa al quale si sarebbe messo fine, tra il novembre e il dicembre 2011, con la fuoriuscita di Berlusconi e la formazione del governo Monti.

Come se non ce ne fosse abbastanza, durante il suo settennato, Napolitano ha visto crescere e allargarsi l'antipolitica, morire e rinascere con vigore la Lega, internazionalizzarsi l'estrema sinistra, trasformarsi il Pd in forza trasversale sul piano del consenso elettorale e minoritaria sul piano della composizione interna grazie all'affermazione del nuovo, giovane leader, Matteo Renzi.

Un settennato più complicato e capzioso, certo, non poteva esserci, tanto che c'è stato bisogno di un supplemento di un anno e mezzo abbondante per riposizionare la nazione italiana sullo scacchiere europeo.

Ciò che colpisce è come sembri che ognuna di queste difficoltà sia stata creata proprio per essere aggredita e vinta da un uomo delle qualità e caratteristiche di Napolitano. Con la sua presidenza, abbiamo, spesso, avuto l'impressione che solo uno statista di livello superiore - come, nella prima repubblica, erano stati i “non presidenti della repubblica” Moro, Andreotti e Fanfani - avrebbe potuto far fronte alla bolgia politica che si creava giorno dopo giorno. Eppure, per il ricordo degli equilibri della prima repubblica, Giorgio Napolitano era e restava uno stratega della componente riformista del Pci. La sua ascesa al Colle non è paragonabile a quella di Pertini. Essa è, obiettivamente, un miracolo istituzionale del Pd che stava per nascere e che, appena nato, avrebbe avuto dal Capo dello Stato tutti i supporti e le garanzie senza i quali sarebbe andato a navigare in acque ben peggiori delle attuali.

Napolitano è stato così statista - alla Moro, all'Andreotti, alla Fanfani – da avere colto che nel destino del Pd c'era un uomo, giovane e napoleonico, come Renzi, in grado di guidare un conflitto generazionale e di riuscire a vincerlo. Ed è stato ancora così statista da far capire questa tendenza allo stesso Berlusconi, rimandando a lui la palla e la responsabilità di un comportamento virtuoso sul quale ricreare, se lo potrà, il futuro del suo partito.

Napolitano non è stato uomo di parte, ha solo sentito col giusto anticipo la composizione e i movimenti delle parti, intendendo per “parti” e non per “partiti” i suoi interlocutori, di destra e di sinistra, e rimandando a riaggregazioni partitiche più mature il futuro della Repubblica.

Napolitano non è stato vicino al cuore della gente come lo era stato Pertini, ma si è fatto capire dalla gente nonostante un linguaggio da prima repubblica, cifrato, difficile, a volte moroteo, con venature andreottiane e alcuni veleni fanfaniani.

Salutandolo, viene di pensare che il Pd sia nato, effettivamente, molti anni prima della sua costituzione. Quanto al futuro del partito, però, neppure lui, così abile argonauta, credo che abbia le idee tanto chiare, se non per il credito che fino all'ultimo ha continuato a dare a suo “nipote” Matteo Renzi.

MESSAGGIO DI FINE ANNO DEL
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
GIORGIO NAPOLITANO
AGLI ITALIANI

Palazzo del Quirinale, 31 dicembre 2014

Buonasera a tutti. Il messaggio augurale di fine d'anno che ormai dal 2006 rivolgo agli italiani presenterà questa volta qualche tratto speciale e un po' diverso rispetto al passato. Innanzitutto perché le mie riflessioni avranno per destinatario anche chi presto mi succederà nelle funzioni di presidente della Repubblica, funzioni che sto per lasciare rassegnando le dimissioni, ipotesi che la Costituzione prevede espressamente. E desidero dirvi subito che a ciò mi spinge l'avere negli ultimi tempi toccato con mano come l'età da me raggiunta porti con sé crescenti limitazioni e difficoltà nell'esercizio dei compiti istituzionali complessi e altamente impegnativi, nonché del ruolo di rappresentanza internazionale, affidati dai padri costituenti al capo dello Stato.

A quanti auspicano anche per fiducia e affetto nei miei confronti che continui nel mio impegno, come largamente richiestomi nell'aprile 2013, dico semplicemente che ho il dovere di non sottovalutare i segni dell'affaticamento e le incognite che essi racchiudono e dunque di non esitare a trarne le conseguenze. Ritengo di non poter oltre ricoprire la carica cui fui chiamato per la prima volta nel maggio del 2006 dal Parlamento in seduta comune. Secondo l'opinione largamente prevalente tra gli studiosi si tratta di una valutazione e di una decisione per loro natura personali, costituzionalmente rimesse al solo presidente e tali da non condizionare in alcun modo governo e Parlamento nelle scelte che hanno dinanzi né subendone alcun condizionamento. Penso che questi semplici chiarimenti possano costituire una buona premessa perché Parlamento e forze politiche si preparino serenamente alla prova dell'elezione del nuovo capo dello Stato. Sarà quella una prova di maturità e responsabilità nell'interesse del paese anche in quanto è destinata a chiudere la parentesi di una eccezionalità costituzionale. Personalmente resto convinto che la responsabilità richiestami e offerta nell'aprile del 2013, in un momento di grave sbandamento e difficoltà postelettorale, sia risultata un passaggio determinante per dare un governo all'Italia, rendere possibile l'avvio della nuova legislatura e favorire un confronto più costruttivo fra opposti schieramenti politici, ma è positivo che ora si torni per un aspetto così rilevante alla normalità costituzionale, ovvero alla regolarità dei tempi di vita delle istituzioni, compresa la presidenza della Repubblica. L'aver tenuto in piedi la legislatura apertasi con le elezioni di quasi due anni fa è stato di per sé un risultato importante: si sono superati i momenti di acuta tensione, imprevisti, alti e bassi nelle vicende di maggioranza e di governo, si è in sostanza evitato di confermare quell'immagine di un'Italia instabile che tanto ci penalizza e si è messo in moto, nonostante la rottura del febbraio scorso, l'annunciato indispensabile processo di cambiamento. Un anno fa, nel messaggio del 31 dicembre, avevo detto: “Spero di poter vedere nel 2014 almeno iniziata un'incisiva riforma delle istituzioni repubblicane”. Ebbene, è innegabile che quell'auspicio si sia realizzato e il percorso va, senza battute d'arresto, portato a piena conclusione. Non occorre che io ripeta ora - l'ho fatto ancora di recente in altra pubblica occasione - le ragioni dell'importanza della riforma del Parlamento e innanzitutto del superamento del bicameralismo paritario, nonché della revisione del rapporto tra Stato e Regioni; ma sul necessario, più vasto programma di riforme istituzionali e socio-economiche messo in cantiere dal governo, sulle difficoltà politiche che ne insidiano l'attuazione, sulle possibilità di dialogo e chiarimento con forze esterne alla maggioranza di governo – anche, si intende, e in via prioritaria per il varo di una nuova legge elettorale - non torno ora avendovi già dedicato largamente il mio intervento due settimane fa all'incontro di fine anno con i rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile.

Vorrei piuttosto ragionare con voi su come stiamo vivendo questo momento in quanto generalità dei cittadini uniti dall'essere italiani. Credo sia diffuso e dominante l'assillo per le condizioni della nostra economia, per l'arretramento delle attività produttive, dei consumi, per il calo del reddito nazionale e del reddito delle famiglie, per l'emergere di gravi fenomeni di degrado ambientale e soprattutto - questione chiave - per il dilagare della disoccupazione giovanile e per la perdita di posti di lavoro.

Dalla crisi mondiale in cui siamo precipitati almeno dal 2009, nemmeno nell'anno che oggi si chiude purtroppo siamo riusciti a risollevarci. Parlo dell'Europa e in particolare dell'Italia. Gli Stati Uniti, da cui partì anche per errate scelte politiche, la crisi finanziaria conoscono un'impennata della ripresa già avviata e guardano all'Europa per lo sforzo corrispondente, benché in condizioni assai diverse. In effetti l'Italia ha colto l'opportunità del semestre di presidenza del Consiglio per sollecitare un cambiamento nelle politiche dell'Unione che accordi la priorità a un rilancio solidale delle nostre economie. Tra breve il presidente del Consiglio Renzi tirerà le somme dell'azione critica e propositiva svolta a Bruxelles. Nulla di più velleitario e pericoloso può invece esservi di certi appelli al ritorno alle monete nazionali attraverso la disintegrazione dell'Euro e di ogni comune politica anticrisi. Tutte le misure pubbliche messe in atto in Italia negli ultimi anni stentano a produrre effetti decisivi che allevino il peso delle ristrettezze e delle nuove povertà per un così gran numero di famiglie e si traducano in prospettive di occupazione per masse di giovani tenuti fuori, ai margini del mercato del lavoro. Guardando ai tratti più negativi di questo quadro e vedendo com'esso si leghi a debolezze e distorsioni antiche della nostra struttura economico-sociale e del nostro Stato, si può essere presi da un senso di sgomento al pensiero dei cambiamenti che sarebbero necessari per aprirci un futuro migliore e si può cedere al tempo stesso alla sfiducia nella politica, bollandola in modo indiscriminato come inadeguata, inetta, degenerata in particolarismi di potere e di privilegio. Non può, non deve essere questo l'atteggiamento diffuso nella nostra comunità nazionale. Occorre ritrovare le fonti della coesione, della forza della volontà collettiva che ci hanno permesso di superare le prove più dure già in vista della formazione del nostro Stato nazionale unitario e poi del superamento delle sue crisi più acute e drammatiche. Il centocinquantenario dell'Unità si è perciò potuto celebrare, non dimentichiamolo, con orgoglio e fiducia pur nella coscienza critica dei tanti problemi rimasti irrisolti e delle nuove sfide con cui fare i conti. Un recupero di ragionata fiducia in noi stessi, una lucida percezione del valore dell'unità nazionale sono le condizioni essenziali per far rinascere la politica nella sua accezione più alta, per rendere vincente quell'impegno molteplice e di lunga lena che i cambiamenti necessari all'Italia chiaramente richiedono. Ho fatto del mio meglio, in questi anni lunghi e travagliati della mia presidenza, per rappresentare e rafforzare l'unità nazionale, per sanare le ferite che aveva subito, per ridarle l'evidenza che aveva perduto. Se vi sia in qualche modo riuscito toccherà dirlo a quanti vorranno, con obiettività e insieme con spirito critico, analizzare il mio operato. Di strada, comunque, ne abbiamo percorsa nella direzione che indicai in Parlamento dopo avere giurato da presidente il 15 maggio 2006. Cito: “Il reciproco riconoscimento, rispetto e ascolto tra gli opposti schieramenti, il confrontarsi con dignità nelle assemblee elettive, l'individuare i temi di necessaria convergenza nell'interesse generale non contrastano con la democrazia dell'alternanza, ma ne definiscono il più maturo e costruttivo modo di essere in sintonia con l'imperativo dell'unità nazionale”. Questo dissi e in questa direzione, anche se tra alti e bassi, si sta andando avanti ed è il solo modo di garantire all'Italia stabilità politica e continuità istituzionale e di affrontare su larghe basi unitarie le più gravi patologie di cui il nostro paese soffre, a cominciare certo da quella della criminalità organizzata e dell'economia criminale e da quella di una corruzione capace di insinuarsi in ogni piega della realtà sociale e istituzionale, trovando sodali e complici in alto. Gli inquirenti romani stanno appunto svelando una rete di rapporti tra, com'essi hanno detto, mondo di sotto e mondo di sopra. Sì, dobbiamo bonificare il sottosuolo marcio e corrosivo della nostra società e bisogna farlo insieme, società civile, Stato, forze politiche senza eccezione alcuna. Solo riacquisendo intangibili valori morali, la politica potrà riguadagnare e vedere riconosciuta la sua funzione decisiva. Valori morali, valori di cultura e di solidarietà: non lasciamo occupare lo spazio dell'attenzione pubblica solo agli italiani indegni, rendiamo omaggio a italiani esemplari come la brillante scienziata Fabiola Gianotti, eletta all'unanimità direttore generale del Centro europeo per la ricerca nucleare a Ginevra o come l'astronauta Samantha Cristoforetti, che ci parla semplicemente, con modestia professionalità, della ricerca scientifica in corso nello spazio. Siamo orgogliosi di questi italiani campioni di cultura e di solidarietà, come Fabrizio, il medico di Emergency accorso in Sierra Leone per curare i colpiti dal virus Ebola anche a costo di esserne contagiato e rischiare la vita, o come Serena Petrucciuolo, ufficiale medico della Marina, che sulla nave Etna ha aiutato nella notte di Natale una profuga nigeriana a dare alla luce la sua bimba. E che dire della perizia e generosità di cui gli italiani lanciatisi a soccorrere i passeggeri del traghetto in fiamme sulla rotta tra la Grecia e l'Italia hanno dato prova?

Ho voluto fare almeno questi pochi richiami al valore delle risorse umane di cui ci mostriamo dotati e di cui ci si dà alto riconoscimento internazionale potendo citare molti altri esempi individuali, che peraltro rinviano all'eccellenza dei nostri centri in cui i singoli si sono formati così come rinviano al magnifico esempio sia delle forze dello Stato sia del volontariato sui fronti di tutte le emergenze.

Dalla constatazione delle qualità del nostro capitale umano può venire e diffondersi un'accresciuta consapevolezza della nostra identità e della nostra missione nazionale, una missione da esprimere anche in un atteggiamento più assertivo e in una funzione più attiva in seno alla comunità internazionale.

Il canale principale per assolvere questa funzione naturalmente è dato dal concerto europeo nel quale all'Italia è toccata la guida della politica estera e di sicurezza comune e la responsabilità operativa del servizio esterno di azione europea. E il contesto internazionale in cui muoverci è critico è problematico come mai negli ultimi due decenni. Ne vengono per l'Italia per l'Unione europea impegni di riflessioni e d'analisi e soprattutto di proposta e di azione non solo diplomatica rispetto ai quali non ci si può tirare indietro. Il rischio di cadere in quella indifferenza globale che papa Francesco denuncia con tanto vigore è dietro l'angolo anche da noi. A quel rischio deve opporsi una sensibilità sempre più diffusa per le conquiste e i valori di pace e di civiltà oggi in così grave pericolo.

La crescita economica, l'avanzamento sociale e civile, il benessere popolare che hanno caratterizzato e accompagnato l'integrazione europea hanno avuto come premessa e base fondamentale lo stabilirsi di uno spirito di pace e di unità tra i nostri popoli. Ebbene, questo storico progresso è sotto attacco per l'emergere di inauditi fenomeni e disegni di destabilizzazione, di fanatismo e di imbarbarimento, fino alla selvaggia persecuzione dei cristiani. Dal disegno di uno o più Stati islamici integralisti, da imporre con la forza sulle rovine dell'Iraq, della Siria, della Libia, al moltiplicarsi o acuirsi di conflitti in Africa e in Medio oriente, nella regione che dovrebbe essere ponte tra la Russia e l'Europa: di questo quadro allarmante l'Italia, gli italiani devono mostrarsi fattore cosciente e attivo di contrasto. Ci dà forza, la parola, il magistero del Pontefice, che per la Giornata mondiale della pace si fa portatore di un messaggio supremo di fraternità e ci richiama alla durissima realtà dei molteplici volti della schiavitù nel mondo d'oggi. Farci ciascuno di noi partecipi di un sentimento di solidarietà e di un impegno globale sconfiggendo l'insidia dell'indifferenza per fermare queste regressioni e degenerazioni è un comandamento morale ineludibile. E forse facendoci lucidamente carico di quanto sta sconvolgendo il mondo potremo collocare nella loro dimensione effettiva i nostri problemi e conflitti interni di carattere politico e sociale, potremo superare l'orizzonte limitato ristretto in cui rischiamo di chiuderci.

Ho così concluso l'appello che questa sera ho voluto indirizzare più che ai miei naturali interlocutori istituzionali a ciascuno di voi come persone, come cittadini attivi nella società e nelle sue molteplici formazioni civili, perché da ciascuno di voi può venire un impulso importante per il rilancio e un nuovo futuro dell'Italia. Lo dimostrano quei giovani che non restano inerti dopo aver completato il loro ciclo di studi nella condizione ingrata di senza lavoro, ma prendono iniziative, si associano in piccoli gruppi professionali per fare innovazione, per creare, per aprirsi una strada. Dal modo in cui tutti reagiamo alla crisi e alle difficoltà con cui l'Italia è alle prese nasceranno le nuove prospettive di sviluppo su cui puntiamo, su cui dobbiamo puntare dall'alto e dal basso. Il cammino del nostro paese in Europa, lo stesso cammino della politica in Italia lo determineremo tutti noi, ciascuno di noi con i suoi comportamenti, le sue prese di coscienza, le sue scelte. Più si diffonderanno senso di responsabilità e senso del dovere, senso della legge e senso della Costituzione, in sostanza senso della Nazione, più si potrà creare quel clima di consapevolezza e mobilitazione collettiva che animò la ricostruzione postbellica e che rese possibile senza soluzione di continuità la grande trasformazione del paese per più di un decennio. Mettiamocela dunque tutta, con passione, combattività e spirito di sacrificio. Ciascuno faccia la sua parte al meglio. Io stesso ci proverò nei limiti delle mie forze e dei miei nuovi doveri una volta concluso il mio servizio alla presidenza della Repubblica dopo essermi impegnato per contribuire al massimo di continuità e operosità istituzionale durante il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea. Resterò vicino al cimento e agli sforzi dell'Italia e degli italiani con infinita gratitudine per quel che ho ricevuto in questi quasi nove anni non soltanto di riconoscimenti legati al mio ruolo, non soltanto di straordinarie occasioni di allargamento delle mie esperienze anche internazionali, ma per quel che ho ricevuto soprattutto di espressioni di generosa fiducia e costante sostegno di personale affetto, direi, da parte di tantissimi italiani che ho incontrato o comunque sentito vicini. Non lo dimenticherò. Grazie ancora. E che il 2015 sia un anno fecondo di risultati positivi per il nostro paese, le nostre famiglie, i nostri ragazzi.

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