Riflessioni sul sistema sanitario

Nel corso della drammatica emergenza sanitaria conseguente alla diffusione del Covid-19 anche nel nostro Paese, sono emerse questioni,  riguardanti in particolare il futuro del nostro sistema sanitario, sulle quali dovranno farsi più attente analisi e proposte di eventuali necessari cambiamenti.

C’è innanzitutto la questione della vulnerabilità di un Sistema che ha subito forti tagli lineari specialmente negli ultimi dieci anni fino a raggiungere un definanziamento  complessivo di circa 37 miliardi. Ne sono chiare al riguardo le statistiche di Eurostat: nel 2007 agli ospedali italiani era dedicata una percentuale (6,4%) della nostra spesa pubblica, superiore a quelle registrate negli altri Paesi dell’Unione Europea (5,8%). Nel 2018, in un contesto di riduzione generalizzata delle spese degli Stati, le percentuali si erano invertite (5,9% per l’Italia, 6,2 per gli altri Paesi dell’Unione). Ne hanno sofferto il numero di posti letto negli ospedali (ne abbiamo la metà di quelli su cui possono contare i tedeschi) e, in modo particolare, di quelli per terapia intensiva. Ed abbiamo pochissimi infermieri ed altri operatori sanitari, anche se il numero dei medici non è inferiore rispetto alle medie comunitarie. Dei quali però si prevede una grave carenza nei prossimi anni, frutto di una errata programmazione nell’ambito del sistema del numero chiuso che respinge sei studenti su sette.

C’è poi la questione dell’attuale articolazione istituzionale del Servizio sanitario, fondato su una organizzazione di attività la cui attuazione “compete alla Stato, alle regioni e agli enti locali territoriali”, che ha evidenziato, nell’esperienza che viviamo, una continua latente e manifesta divaricazione tra Governo e Presidenti di regione su provvedimenti adottati o da adottare (ad esempio, attraverso la sovrapposizione di decreti od ordinanze con diverso contenuto sul medesimo oggetto).

Nel rilevare tali anomalie, Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale, osserva come occorra prendere atto di una dimensione dei problemi che richiede l’esercizio di poteri unitari da parte dello Stato. . E senza dover mettere  in discussione il principio costituzionale che riconosce e promuove le autonomie locali, ritiene che sono da riesaminare le modalità dell’attuazione che ne è stata data con la riforma costituzionale  del 2001, riguardante il Titolo V, che considera la tutela della salute materia di competenza concorrente tra Stato e Regioni.

Più decisa la posizione di Sabino Cassese, giudice emerito della Consulta, che, ricordato che il Servizio sanitario è definito nazionale perché deve avere un’organizzazione e un funzionamento uniforme sul territorio, afferma l’esigenza di trasferire il servizio allo Stato o a una guida centrale assicurata da un organo composito Stato-regioni, “ma che parli con una voce sola”.

Frena su tutto il prof. Renato Balduzzi, eminente costituzionalista ed ex ministro della Salute del governo Monti, che difende l’attuale assetto dei servizi sanitari che restano meglio organizzabili e gestibili lasciando spazi di autonomia alle regioni e precisa che l’art. 117 del d.lgs 112 del 1998, confermato dal nuovo Titolo V, prevede che, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica che interessino più ambiti regionali, i provvedimenti d’urgenza, ivi compresa la creazione di centri ed organismi di referenza ed assistenza, spettino allo Stato.

Per quanto riguarda la questione de i “modelli” regionali di organizzazione dei servizi sanitari, appaiono significativi i risultati differenziati della gestione dell’epidemia in Lombardia e in Veneto che riflettono due modelli.

La Lombardia, infatti, ha scelto un approccio che si è basato principalmente sulla sua rete di servizi clinici, mentre ilVeneto ha attuato una vasta strategia comunitaria che si è basata su una più solida rete sanitaria pubblica e sull’integrazione locale dei servizi.

Nel settore della sanità pubblica, invece, le differenze sono molto maggiori: in Lombardia ci sono tre laboratori di sanità pubblica (circa 1 ogni 3 milioni di abitanti) mentre in Veneto sono 10 (circa 1 ogni 500.000persone). In Lombardia ci sono 8 dipartimenti di prevenzione sanitaria pubblica (1 ogni 1,2 milioni) contro i 9 del Veneto (1 ogni 500mila persone).

L’assistenza domiciliare è più diffusa in Veneto che in Lombardia, come dimostra la partecipazione all’Assistenza Domiciliare Integrata che fornisce servizi domiciliari ad anziani, disabili e persone con patologie croniche. Nel 2017, l’anno più recente per il quale sono disponibili i dati, il programma ha servito 3,5 persone ogni 100.000 in Veneto, contro meno della metà della Lombardia: 1,4/100.000.

L’indicazione che se ne ricava è che i servizi sanitari territoriali (che s’integrano anche con quelli sociali) costituiscono un presidio indispensabile a difesa della salute dei cittadini. Va quindi sviluppata la medicina territoriale. Come si è operato in Umbria, pur non raggiungendo obiettivi ottimali ma significativi. E bene ha fatto il ministro della Salute, Roberto Speranza, nel destinare risorse finanziarie (235.834.000 euro) per l’acquisto di apparecchiature sanitarie finalizzate a garantire  l’espletamento di prestazioni di competenza  dei medici di famiglia, per migliorare il processo di presa in cura dei pazienti e ridurre il fenomeno delle liste di attesa.

Sarà cura delle Regioni di presentare al Ministero della Salute un piano dei fabbisogni per l’utilizzo delle risorse assegnate, che per l’Umbria si tratta di circa 3,5 milioni di euro.

Occorre prendere atto, infine, sempre confrontando le due regioni, Veneto e Lombardia, come la Sanità pubblica, pur con l’apporto programmato delle necessarie strutture private accreditate, sia la garanzia più adeguata per assicurare veramente la tutela della salute di tutti i cittadini.

 

Alvaro Bucci