Festival del calcio, chiusura in grande stile con il Golden Boy italiano

Ha chiuso i battenti ieri, in Corso Vannucci, la seconda edizione del Festival del Calcio e dello Sport riscuotendo, come del resto anche lo scorso anno, un successo considerevole dal punto di vista sia mediatico che delle presenze ai vari incontri, svoltisi per buona parte all’interno a causa di condizioni meteo non propriamente all’altezza. Proprio la giornata conclusiva ha rischiato di svolgersi in tono minore, visto che l’appuntamento con il maestro Arrigo Sacchi è saltato per via di un infortunio in bicicletta riportato dall’ex ct azzurro. Ma intorno alle ore 19 si è presentato in Piazza della Repubblica ed in ottima forma il Golden Boy del calcio italiano, primo calciatore italiano ad aver vinto il Pallone d’Oro (era il 1969 e il suo Milan veniva dalla grande vittoria in Coppa dei Campioni contro l’Ajax di Cruyff, travolto con un sonoro 4-1). Stiamo ovviamente parlando di Gianni Rivera, che oltre un grande calciatore, tra i migliori della storia in Italia, è stato anche un buon politico. L’incontro è stata l’occasione per presentare la sua autobiografia di circa 500 pagine e del peso di quattro chili.

UN LIBRO VOLUTO DA ALTRI – Rivera, nell’iniziare il suo lungo intervento, ha subito spiegato le ragioni che lo hanno portato a scrivere questo libro: “Alcuni editori mi hanno cercato di convincere e così mia moglie ha scannerizzato il tanto materiale a nostra disposizione che mio padre aveva messo da parte. Lui metteva tutti gli articoli di giornale in scatole di camicia. E’ un libro pesante da reggere ma credo interessante da leggere”. Il pubblico è rimasto un po’ a bocca aperta quando l’ex numero dieci di Milan e Nazionale ha rivelato la squadra per cui tifava da ragazzino: “In Piemonte si parlava solo della Juventus e quindi la sostenevo, poi sono cresciuto e ho cambiato”. In lui c’era un modo singolare di affrontare le partite: “Non mi emozionavo tanto a giocare, preferivo stare con i piedi per terra perché venendo dalla campagna mi era stata impartita questo tipo di educazione”.

GLI INIZI NELL’ALESSANDRIA E IL PRECOCE DEBUTTO IN PRIMA SQUADRA – La storia di Gianni Rivera inizia nella squadra della sua città, l’Alessandria, con la quale debutta a 15 anni e 9 mesi, cosa nel calcio di oggi praticamente impossibile (ci andò vicino poi l’attaccante bulgaro Valeri Bojinov quando esordì a 15 anni e 11 mesi con la maglia del Lecce nel gennaio 2002). E l’avvicinamento ai grigi piemontesi fu molto curioso: “L’allenatore della squadra, che era anche un giocatore, Franco Pedroni, voleva che facessi una prova con i titolari. Ero un po’ preoccupato perché le scarpe che ci davano dovevano durare tutto l’anno e avevano tre liste di cuoio. Capitava che i chiodi spuntavano e potessero creare dei fastidi, ma per mia fortuna iniziò a piovere e non ebbi alcun problema. Poi, dopo le olimpiadi di Roma 1960 andai al Milan, dopo che Liedholm e Schiaffino andarono a parlare con Gipo Viani, all’epoca direttore sportivo”. Ma l’avvicinamento all’Alessandria, facendo un passo indietro, fu molto curioso: “Questa società era la prima a far giocare bambini sotto i 14 anni. Io ne avevo tredici e mister Carnara mi fece fare dei passaggi in abito da festa, visto che poco prima avevo partecipato alla festa del paese, e poi mi mandò via. Credevo di non averlo soddisfatto, poi venni a sapere che aveva detto ad alcune persone a lui vicine che avrei fatto molta strada. Ecco, magari se lo avesse detto a me era meglio”, dice con un sottile velo di ironia l’ex Golden Boy milanista.

UN CALCIO ATTUALE FATTO DI POCA TECNICA – Non poteva mancare un giudizio sul calcio di oggi. Rivera ha le idee chiare su come vanno le cose attualmente delineando un quadro a tratti desolante: “Ho avuto la fortuna di avere un allenatore, quello del settore giovanile dell’Alessandria, innamorato della tecnica, per lui fondamentale. Era talmente bravo ad insegnare che faceva anche il maestro di tennis. Oggi si prendono più giocatori bravi all’estero e da noi ci sono spesso delle mezze figure. Finchè non si privilegia la tecnica credo che sarà molto difficile vedere del buon calcio in Italia. Inoltre non capisco perché ai giovani non gli si dia fiducia; occorrerebbe rischiare di più”.

GUERRE SUDAMERICANE – Gianni Rivera ha poi ripercorso la sua carriera in rossonero, durata ben 19 anni. Tra le particolarità ci sono le sfide di Coppa Intercontinentale, che all’epoca prevedevano partita di andata e ritorno in Europa e in Sudamerica, prima che a partire dal 1980 venisse scelta la sede fissa di Tokio per i successivi 24 anni, al termine dei quali venne istituito l’attuale Campionato del Mondo per Club. Proprio le sfide oltreoceano venivano definite dall’ex capitano della squadra come delle “vere e proprie guerre. Il Santos aveva perso 4-2 a Milano e, malgrado giocassero più a pallone, dovevano inventarsi qualche forzatura. In Argentina, contro l’Estudiantes, abbiamo davvero rischiato la vita. Inoltre picchiavano come dei fabbri, ma alla fine eravamo ancora vivi e questo era già tanto”.

UN UOMO UNA GARANZIA, NEREO ROCCO – Una persona con cui Rivera ha avuto un profondo rapporto di stima è stato sicuramente il “Paron” Nereo Rocco, una persona che “privilegiava molto il rapporto umano. Era un personaggio unico, e lo dimostra il fatto che non aveva voluto uno spogliatoio per lui, ma voleva stare con la squadra. Parlava inoltre un triestino italianizzato”. Con questo allenatore il capitano vivrà non a caso i suoi anni migliori.

I RAPPORTI CON LA STAMPA – Rivera era singolare anche con i rapporti con i giornalisti, precisando però che “ero sempre disponibile, e quando mi chiamavano a casa li aiutavo. Poi però quando volevano andare sul personale li squalificavo”. Sono due le persone con cui ci sono stati i rapporti più intensi, vale a dire Gianni Brera e Beppe Viola. “Brera era uno che privilegiava l’aspetto atletico e ci definì a me, Mazzola e Bulgarelli come il “trio degli abatini”. Poi fui l’unico a rispondergli e questo soprannome rimase a me. Successivamente, dopo il mondiale del 1966 che finì come tutti sappiamo, feci il miglior campionato della carriera. Persino Brera disse che dovevo tornare in nazionale, e poi durante una cena tirò fuori un Barloresco di casa e diventammo amici. Beppe Viola invece si interessava di tutto. Durante la sosta di Natale la Domenica Sportiva, che andava in onda tutto l’anno, aveva bisogno di argomenti. Allora lui venne a prendermi con il pullmino e poi su un tram facemmo l’intervista, durante la quale secondo me capì che dopo qualche anno avrei smesso di giocare. Questo perché quel giorno nevicava ed entrammo nello stadio e quella con me in San Siro innevato sembrava una foto di addio al calcio. Il problema però è che non lo sapevo ancora”.

LE POLEMICHE CON LA CLASSE ARBITRALE – Uno degli aspetti più suggestivi della lunga carriera di Rivera era il rapporto con i direttori di gara, apparsi spesso tormentati. Un nome su tutti, il fischietto siciliano Concetto Lo Bello, non a caso soprannominato “Il tiranno di Siracusa” proprio per la sua autorità nel dirigere le gare. “Credevo che volessero favorire altre squadre e allora dissi quello che io e i miei compagni ci sentivamo visto che nessuno, nemmeno i dirigenti parlavano. Mi presi due mesi e mezzo di squalifica e mi andò anche bene. Lo Bello? Quando vedeva i rossoneri andava in crisi, e allora chiedemmo e ottenemmo di non farci più arbitrare da lui. Ma Zanetti, allora direttore della Gazzetta dello Sport, disse: “Lo Bello tornerà e ve la farà pagare”. Detto fatto. La settimana successiva andammo a Roma a giocare contro la Lazio e perdemmo 2-1 con un gol regolare annullatoci. Presi altre quattro giornate di squalifica poi ridotte a due perché si rese conto di aver esagerato nel referto. Era talmente bravo nel suo mestiere che a volte il risultato lo determinava da solo”.

ITALIA – GERMANIA 4-3 E IL FAMOSO GOL DEL SECOLO – Non poteva infine mancare un riferimento alla carriera azzurra, resa famosa dal gol della vittoria segnato al mondiale di Messico ’70 nella famosa semifinale contro la Germania che entrò indelebilmente nella storia del calcio. Un’impresa che ebbe radici ben precise, che andarono al di la della famosa staffetta con Sandro Mazzola: “Sono andato sul palo perché non capivo perché nessuno ci andasse. Poi, battuto il calcio d’angolo, Seeler, che era basso ma colpiva bene di testa, indirizzò verso Muller che mi fece passare il pallone tra l’anca e il palo. Cosa mi disse Albertosi? Ma dai, non fa niente – ha rivelato scherzando Rivera visto che in realtà le parole proferitegli dal portiere furono di tutt’altro tenore – e poi ho pensato che il gol del 4-3 lo dovessi andare a fare io. Una soluzione poteva essere dribblare tutti i tedeschi, ma era impossibile. Allora, prima che Boninsegna crossasse in mezzo, mi sono buttato in area e, essendo stato fortunato che nessuno mi marcava, la misi dentro di destro. E il bello è che credevo di aver segnato di sinistro”. Una realizzazione quindi voluta dalla buona sorte: “Già – conclude l’ex azzurro – perché se magari andava sul palo o fuori non staremmo qui a parlare del gol del secolo”.

Alla fine il numeroso pubblico presente si è sciolto in un lungo applauso e immancabili sono state le richieste di foto e autografi. L’edizione 2016 del Festival si è andata quindi in archivio come meglio non si poteva e l’appuntamento è ora per il prossimo anno con ospiti si spera ancora più prestigiosi.

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