Racconti dal Cuore d’Italia al Salone del Libro di Torino

PERUGIA – Alex Scillitani ha lasciato andare la camera, senza interventi di regia o set di ripresa, live, testimoniando il cammino come un accompagnatore discreto. Montagne nebbiose, altipiani, rocce, vegetazioni, paesi, uomini, animali. Nel silenzio di fondo della natura e della sua terribile bellezza, che ricorda l’Asia e il poeta Rilke, voci e racconti che entrano nell’inquadratura, come se si fosse lì, e si camminasse con naturalezza con i tre viandanti, che, a piedi, in cinque giorni hanno traversato tre regioni e tre fiumi. Alla ricerca di un’“altra” verità, di un altro punto di vista sul terremoto dell’Italia Centrale.

Hanno viaggiato così, lo scrittore/ giornalista Paolo Rumiz, Alex Scillitani e Paolo Piacentini, lungo la linea di faglia da Amatrice a Norcia e Visso, passando per Norcia. Dalle molte ore di registrazione è nato un docufilm di sessanta minuti, tuttora al montaggio ma – ha annunciato Alex Scillitani alla folta platea che ne ha seguito il “trailer” al Salone del Libro di Torino – ormai quasi ultimato. L’occasione per presentare il film, annunciarne un “sequel” incentrato sui cammini umbri, ma, soprattutto, per riflettere sul terremoto in modo diverso, lontano dalla cronaca giornalistica di sensazione e di tu-chiamala-se-vuoi-emozione, è stato “Racconti dal cuore d’Italia”, un dibattito promosso dalle tre regioni coinvolte dai sismi dell’agosto e dell’ottobre 2016, Lazio, Marche ed Umbria, che si è svolto presso lo stand della Regione Marche presso la Fiera del Libro di Torino, gli onori di casa fatti dal presidente del Consiglio regionale Antonio Mastrovincenzo.

Vi hanno partecipato, oltre a Paolo Rumiz con Scillitani e Piacentini, Lidia Ravera, Rosa Matteucci e Renato Mattioni (due scrittrici di spicco della narrativa italiana contemporanea le prime, giornalista-scrittore il terzo, che ha recentemente dedicato un volume alla “terra di mezzo” umbro-marchigiana attraverso un suo prodotto-simbolo, il ciauscolo), con la partecipazione di Ermete Realacci, presidente di “Symbola”, la Fondazione delle Qualità Italiane da anni impegnata a far sinergia e squadra, sullo sfondo del grande paradigma natura/cultura, intorno ai temi della promozione integrata delle risorse italiane, e con essa dunque della creatività, dell’innovazione, della coesione sociale, della valorizzazione del paesaggio, dei beni culturali e, last but not con quel che segue, del cosiddetto turismo di qualità.

L’idea nuova, certo accattivante, intrigante e a suo modo rischiosa, di chi lo ha promosso, è stata di coinvolgere nel dibattito sul terremoto non tanto politici (Lidia Ravera, assessore del Lazio, parzialmente lo è, non al punto da far ombra sul suo mestiere principale), ma scrittori. Quelli, cioè, che raccontano storie, per forza di contenuto o per virtù di stile e di metafora, e che non hanno altri lumi, nella loro attività, che una autenticità consapevolmente perseguita, unita a prospettive di soluzionedei problemi non legate alla contingenza degl’interessi (anche collettivi) di questo o quello, ma ispirati da ciò che – ahinoi, in politica merce sempre più fuori mercato – un tempo si chiamava Visione.

Ne poteva nascere, forse (e prendete la mia è la testimonianza diretta di chi ha avuto l’ònere, sùbito trasformatosi in piacere, di indirizzare il dibattito), una idiosincratica babele di voci. È stato invece – a dispetto delle perigliose condizioni acustiche comune a questo genere di manifestazioni, compensate dal caos felice di gente transumante che si è fermata per molto tempo ad ascoltare – un concerto ordinato a più voci, con singolari consonanze su temi densi e specifici. Posseduto dalla stessa ispirazione che lo aveva spinto sulla Via Appia e in tanti “altrove”, dimentico dell’annuncio di ritiro dal giornalismo “on the road” fatto poco prima del terremoto, Paolo Rumiz ha ripreso ”lo zaino e il taccuino dell’errabondo”, e si è rimesso in marcia.

Suo il concetto basico, leit-motiv e fil rouge, come si diceva una volta, del film di Scillitani, da tutti gli oratori condiviso, quello del “mistero dell’identità appenninica”: capire come mai un luogo che è stato baricentro del Paese sia sentito dai governanti e non solo, anche (seppur dal lato svantaggiato rispetto ai primi) da chi ci abita, come una lontana periferia. E perché dunque i politici non “pattugliano” il territorio, magari andando a piedi, “sporcandosi le scarpe”, come Rumiz? Il fatto è che c’è uno “scarto”, anche grosso, fra politica e letteratura, fra la Visione e le mediazioni e le complicazioni che fanno smarrire il cammino, parola di Lidia Ravera, assessore di Zingaretti, una trentina di libri all’attivo, dopo il fragoroso “Porci con le ali”, che fra un anno, conclusa l’esperienza amministrativa, si rimetterà (soltanto) a scrivere.

E la tanto sbandierata questione dell’identità, delle radici, del senso del luogo? Nulla, se non la si fonda su un concetto semplice e granitico: “Stanno svendendo tutto”, dice Rumiz, “tutto in nome di uno sviluppo che rende infelici la gente. Questa infelicità io la chiamo perdita traumatica del senso del luogo. Per questo il terremoto è solo l’ultimo sigillo di una condizione che già c’era”. E mette in luce un nesso decisivo: “Ciò che ci trasforma in carne da cannone è lo stesso imbonimento che ci fa comprare questo o quel detersivo o votare questo o quel partito”.

Si è messa dalla parte del pubblico, Rosa Matteucci, per vedere meglio il “trailer” di Scillitani. Rosa Matteucci, uno dei maggiori talenti della letteratura italiana, che vive a Genova ma è di Orvieto ed è orgogliosa di esserlo, e per questo oggi rappresenta l’Umbria. Quando vede le mucche e ascolta il racconto sofferente degli allevatori sulla loro morte per isolamento e gelo, sta male, ha la stessa reazione vibrante delle protagoniste dei suoi romanzi pubblicati da Adelphi, “Lourdes” e “Costellazione familiare”. “È insopportabile, non si può vedere una cosa del genere. Non si possono dimenticare gli animali, le mucche, poi, che sono la terra e la vita”. Gli fa eco Rumiz. “La sofferenza degli animali è quasi ignorata dalle istituzioni”. E anche dalla superficiale, bombastica copertura dei media. Le mucche non si lamentano, e non fanno parte delle magnifiche sorti e progressive.

Le suggestioni sono molte, convergono. L’Oriente, soprattutto. La “terra di mezzo”, le sue montagne, i suoi altipiani che sembrano asiatici, New Age, come diceva il poeta Guido Ceronetti qualche anno fa, e Castelluccio che sembra il Tibet, dice Rumiz, e Rosa Matteucci che unisce l’Oriente (ha scritto anche una “India per signorine”) con le Sante Umbre, Santa Chiara, Santa Angela, Santa Vanna.

E ragionando di religione e fascino ultraterreno del digiuno e dei richiami del trascendente, ci s’imbatte ad un tratto nel ciauscolo di Renato Mattioni, vissano trapiantato a Milano da poco pendolare con Roma. “Un cibo tutt’altro che da virtù ascetica”, spiega parlando del delizioso libretto “Non di solo pane”, che del ciauscolo narra storie e memorie. “Eppure un cibo frugale, da ‘virtù penultima’, quella della ‘mezza costa’”.

Memorie di “resistenza”. Perché quando fa il giro del tavolo la foto dello zio di Mattioni di cui Guido Picchio ha fatto sul web l’icona della “Resistenza del ciauscolo”, Lidia Ravera, che da sempre studia l’antropologia della vecchiaia e vi ha dedicato romanzi e saggi, si dice incantata alla forza di questo anziano, anzi vecchio, dall’autenticità triste ma resiliente e volta al futuro della sua faccia segnata di spettacolari rughe. Resistenza, così come “resistenti” (gente cioè tesa a cercare per l’Appennino una narrazione nuova, “una formula inedita di rinascita e, soprattutto, di appartenenza”) sono i protagonisti di Paolo Rumiz. Perché il nocciolo è tutto qui. Cosa fare di queste zone, cosa fare dell’Appennino, come costruire un nuovo inizio, non solo dal terremoto, attraverso una bellezza che assecondi quella dei luoghi e sia in grado di propiziare la rinascita. Perché le “forze della rinascita” esistono, dice Rumiz, e ribadisce in un appassionato intervento Paolo Piacentini, sono già attive e possono far sistema da sùbito, a patto che la politica, che non è affatto scontato, sia capace di costruire sinergie al posto di concorrenze sterili.

Ci vuole un modello nuovo di Appennino, dice Ermete Realacci, bisogna mettere in rete le risorse, le idee, le invenzioni, i prodotti di eccellenza. Come il ciauscolo di Mattioni, che fattura sei milioni l’anno. Ripensare lo sviluppo. In nome di tradizione, leggerezza e nuova coesione. Ricorda, Realacci, il suo progetto di legge sui piccoli comuni. Ripensare lo sviluppo, ma tornando all’arcano dei luoghi, alla sapienza delle radici pastorali. I sentieri che abbiamo percorso, dice Rumiz a mo’ di conclusione, indicano la strada del ritorno.

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