ASTE&RISCHI JAZZ, GIACINTO, GIÀ VISTO

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Ieri mattina ho raggiunto Perugia con uno di quei simpatici treni per pendolari, da pochi mesi in funzione, ai quali è stato dato il nome di “Jazz”. Sarà stata cambiata anche la musica – come si è enfatizzato nel momento di dargli il via – ma jazz o non jazz inevitabilmente ogni tanto questi convogli, ultramoderni per tratte locali, accumulano grossi ritardi e fanno saltare il precario equilibrio dell’Umbria in movimento. Sentire dire, come ho sentito dire ieri mattina in treno come bisticcio verbale, che “in Umbria il jazz è in ritardo” è suonato, peraltro, anche di cattivo auspicio per le diverse combinazioni fra quelle parole fra virgolette che gli appassionati dei giochi di enigmistica, ma non solo loro, potrebbero ricavare togliendo il solo articolo e slittando sulle preposizioni. E davvero, di fatto, senza ricorrere ai calembour, nei colloqui fra pendolari dei quali era strapieno il convoglio, nel miscuglio di parole che si crea nelle carrozze dei pendolari, volavano ieri mattina per l’aria viziata brandelli di discorsi un po’ sinistri: “Umbria”, “jazz”, “in ritardo”.

Il “jazz” è davvero un'altra musica, non solo per la Rete ferroviaria italiana? Qui, in Umbria, sarebbe, in realtà, la stessa musica di sempre, abituati come siamo alle estati di un Festival che ha voluto tentare di cambiare la struttura antropologica dei gusti musicali degli umbri, normalmente oscillanti tra il culto del bel canto e gli stornelli della tradizione orale, poi divenuta colta, delle campagne.
Ora, anche questo Festival, oltre che il trenino battezzato col suo nome, potrebbe essere in ritardo dopo tanti anni di precisione cronometrica nel far trovare piazze stracolme ai nomi di punta del programma di luglio? Non lo so, non lo posso dire, per dirlo dovrei correre dietro a strane voci che girano in città sulle conseguenze che la crisi generale fa sentire, in termini di risorse, a quel Festival. Però, scendendo dal “Jazz” a Fontivegge, sono preso dall’idea, tutta mia, che il Festival, come il treno, più diventa bello e ridisegnato rispetto alle vecchie carrozze delle Ferrovie dello Stato più acquista simpatia. La nostalgia, però, per le edizioni in cui non c’erano il rap, il rock, il blues e la canzone d’autore, in cui tutto era più spartano e perugino e si mangiavano pagnotte volanti anziché bei piatti nei ristoranti del villaggio del Festival, non potrebbe innescare, alla lunga, un fatale ritardo nella macchina dell’evento, costretta intanto a rincorrere dei “jazz” sempre un po’ più avveniristici?
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Mentre io arrivavo in treno a Perugia, Giacinto Pannella arrivava in automobile in Piazza d’Italia per una conferenza stampa alla Rosetta. Un piccolo capannello di radicali lo ha accolto e lo ha scortato nei quattro passi per arrivare all’albergo. Ascoltato a Radio Radicale, il leader ottuagenario ha avuto da ridire sul fatto che era “un onore” averlo a Perugia (basta dire “un piacere”, ha puntualizzato), è tornato, come in mille occasioni, sulla sua più celebre creatura – la vittoria nel referendum sull’abrogazione del divorzio – ed è partito con lenta rincorsa dalla rievocazione dei lontanissimi anni perugini, quando animava l’Unione Goliardica Italiana. Gli argomenti all’ordine del giorno della conferenza stampa erano molto più stringenti: la via elettorale per le regionali, con tanto di protesta a guida radicale per gli esclusi dalla rappresentanza a Palazzo Cesaroni, e la partita del proibizionismo locale, che ha nel voto per la norma anti accattonaggio votata un po’ da tutti in Consiglio comunale a Perugia il lato di più facile attacco da parte dell’opposizione radicale.

Pannella e i suoi sono anime candide? Che contributo politico può venire da loro, specie a livello locale, se si limitano sempre a questionare giuridicamente per i referendum che le varie leggi umbre hanno ogni volta impedito loro di tenere? Possono vantarsi di avere fatto pendere l’ago della bilancia alle comunali di Perugia dello scorso giugno, ma adesso spaccano il capello dicendo che hanno agito per avere l’alternanza senza giurare sull’alternativa. Che non viene, anzi si maschera di perbenismo, col placet, anche, di buona parte del gruppo consiliare del Pd. Sì, questo locale può essere “candore” in tutti i sensi, dall’ingenuità alla spontaneità, ma il volo di Pannella, col suo ghigno perennemente pronunciato, a me è sembrato, sempre, molto meno angelico.

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Un leader nazionale che si concede a una platea di provincia. E quanto volte l’abbiamo già visto, di ogni colore politico, di ogni stagione politica, di ogni grande o piccola notorietà? Quando arriva, è una sorpresa, quando riparte accetterebbe un saluto anche dal suo più feroce denigratore. Ne sono arrivati che riempivano Piazza IV Novembre e il Corso, quando ancora l’impero mediatico li faceva conoscere e non li faceva conoscere, quando i loro nomi erano sulla bocca di tutti, ma le loro immagini, i volti erano poco familiari. Ne sono arrivati che hanno riempito porzioni più ristrette di suolo pubblico comunale, quando ormai li si vedeva molto più spesso in televisione e, per questa via, si sfilacciava l’effetto sorpresa del loro scendere, in carne e ossa, per il Corso.
Oggi è così: passeggi per il Corso e ti vedi davanti, come un passante qualunque, Giacinto Pannella, puoi salutarlo, avvicinarlo, avere da lui un saluto. Ma anche questo è “già visto” ed è il peggiore divismo che si possa vedere, quello mascherato da apparente condiscendenza verso il popolo che non ha volto da parte del leader che ha tanto, tanto volto, tanta, tanta faccia, soprattutto quella tosta di apparire ad altezza dei suoi simili mentre visibilmente si sente su un altro pianeta. E non lo dico solo per Pannella, ma per qualunque piccolo ras locale – politico o manager che sia - alterato nei suoi lineamenti di “già visto”, eccellente, inavvicinabile protagonista.

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