Dis…corsivo. Laudato si per frate cantone

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Si celebra oggi, 3 ottobre, il Transito di San Francesco. La parola “transito” mitiga la realtà della morte del Santo, ma non la cancella. In onore di San Francesco, infatti, la vita e la morte non possono essere che celebrate in una profonda unità e senza alcuna cesura. La fedeltà al Cantico delle creature e al “cantore” che Francesco è stato esige questa perfetta corrispondenza di dolore e di gioia, oggi come ieri. Ed è dal Cantico che mi sento di ripartire per celebrare, a mio modo, il giorno della festività di San Francesco, che ha inizio nel ricordo della sua morte per proseguire nella celebrazione del miracolo di vita che egli è stato: il 3 e il 4 ottobre, appunto.
Pubblico qui, relativa al Cantico, una pagina del testo scritto da me per il Quaderno-omaggio che il Comune di Assisi dona oggi alla Regione Lombardia in occasione dell’Accensione della lampada Votiva dei Comuni d’Italia sulla tomba di San Francesco.

“San Francesco ha scritto il Cantico quando ha ritrovato la sua giovinezza e si è riconsegnato ad essa nell’imminenza della fine terrena dei suoi giorni. Il luogo della composizione è, storicamente e simbolicamente, San Damiano e, anche per questo, viene di pensare che l’interlocutore ‘onnipotente’ del Santo sia quel Crocifisso che, in gioventù, gli aveva parlato. Quell’icona della chiesa da ricostruire lo aveva esortato ottenendo un mirabile effetto: tutta la vita del giovane Francesco non s’era applicata che allo sforzo di obbedire all’invito divino e aveva condotto all’esito riformatore, grande e quasi impensabile, che era ormai sotto gli occhi di tutti. Non più sotto quelli di Francesco, cieco e incapace di proseguire altrimenti la sua vita errante che lo aveva portato lontano, molto lontano, da Assisi.
Così, il Cantico, può essere nato, semplicemente, prima di tutto come risposta all’esortazione venuta dall’ “altissimo” nel tempo della giovinezza di Francesco. Egli, sul momento, pieno di fervore, non sapendo nemmeno da dove cominciare, aveva preso alla lettera il caldo invito del Crocefisso e si era messo a ricostruire la chiesetta campestre di San Damiano, si era circondato di tanti collaboratori, aveva proseguito con l’apostolato, se n’era andato da Assisi, prima timidamente, facendosi le ossa, in un emblematico viaggio verso Gubbio l’indomani della spoliazione, poi sempre più coraggiosamente, in un lavoro quotidiano di peregrinazione e nella simbiosi perfetta con l’alternarsi di giorno e di notte che sembrava fatto apposta per svelargli, ad ogni passo, un pezzo di eternità da far piovere sulla terra.
In tutto questo ineffabile ardore, Francesco, però, una cosa non aveva avuto il tempo di farla: rendere grazie all’Onnipotente per il grande dono che gli aveva fatto invitandolo a svolgere quel compito riformatore che adesso, ad un passo dalla morte, era il nuovo Ordine posto al servizio della chiesa.
Sì, viaggiando, peregrinando, vivendo nelle condizioni più estreme che si possano immaginare, egli ha sicuramente elevato canti di lode al suo Signore, da bravo trovatore che, in cuor suo, non aveva mai cessato di essere. Ma un canto tutto suo, organizzato, coerente e strutturato, non l’aveva mai potuto intonare, troppo preso dall’opera di ricostruzione per la quale s’era impegnato.
Adesso, alla fine, nel buio in cui erano scesi i suoi occhi, tutto ritornava a farsi presente dell’antico obbligo reverenziale verso l’Onnipotente: tornava il Crocifisso, tornavano le macerie della chiesa, i lebbrosi, si rivedeva la fuga verso Gubbio, Chiara era lì presente, soccorrevole e dolce come quando aveva scelto di condividere la sua strada, non si poteva, definitivamente, non riunirli tutti in un grande canto, in uno spontaneo inno, nella celebrazione finale della vita terrena nel momento in cui essa stava per concludersi.
Se il Cantico può essere nato così, c’è molta più narrazione, al suo interno, di quanto si sia portati a credere. Solo che Francesco ha tutto adombrato il ruolo dell’uomo, la sua vita e la sua morte, nello scenario dell’universo che, nel succedersi dei giorni e delle notti, gli avevano sempre parlato. Quando più che mai s’industriava per predicare e per portare il suo esempio, quando passava per le città e incontrava i potenti, il sole, la luna, le stelle gli avevano sempre parlato, ne aveva sentito la semplice, costante compagnia alzando e abbassando lo sguardo come crediamo che egli sapesse fare, giovane, innamorato cantore del bene da affermare sulle note della miseria e povertà umana, che sempre formato quel ‘basso continuo’ di cupo dolore che, nella modernità, ci figuriamo dovesse essere, per un uomo del Duecento, il concetto del male.
La ‘narrazione’ dell’avventura umana dobbiamo leggerla nella filigrana di cui è tessuto il Cantico, così come il canto, l’accompagnamento musicale dell’inno possiamo solo rimandarlo alle nostre orecchie come la pura suggestione che la forza di un testo, ridotto a essere ‘scrittura’ e non anche ‘musica’, sa in ogni caso sprigionare con forza incorrotta e con delicatezza mai sfibrata”.

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