IL NASO DI PINOCCHIO

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Chi ha detto che l’Umbria è un set a cielo aperto? Sta forse scritto in qualche panegirico della retorica turistica e culturale di marca locale? È il ricordo di vecchie, rassicuranti visioni cinematografiche sparite per sempre? Sono domande che mi sorgono spontanee pensando alla vicenda della Telfer di Papigno, la passerella metallica che a Papigno univa due stabilimenti e che ora, fra qualche polemica, il Comune di Terni ha deciso di smantellare. Contro la decisione, riaffermata più volte dall’ex assessore Silvano Ricci prima, dall’attuale Stefano Bucari poi, con argomenti attinenti anche la spesa oltre che la messa in sicurezza della strada sottostante, si sono schierati il “Centro Studi Malfatti”, il consigliere di circoscrizione Est Claudio Pace e il consigliere comunale del Pd Sandro Piccinini. Tema del dibattito: l’archeologia industriale.

Svolgimento a più voci, con iperboli da una parte (i pro Telfer) e minimizzazioni dall’altra (i contro Telfer).
Fin qui un dibattito che rischia di richiudersi su se stesso se non abborda i temi veri della questione, che non possono non essere altri se si pensa che gli studios di Papigno giacciono a un passo dalla Telfer in un abbandono pressoché totale e che la stagione d’oro promessa ai tempi de “La vita è bella”, di “Pinocchio” e de “La tigre e la neve” appare irrimediabilmente persa. L’archeologia del sito di Papigno si avvia ad essere non di tipo industriale, ma cinematografico, mediale e multimediale.
Siamo già arrivati a tanto? Dal 1997 al 2002 al 2005 – date di uscita dei tre film di Benigni che hanno consacrato Papigno – ad oggi sono passati sì e no due decenni e la parabola dei film alti e commoventi ha già conosciuto tanto declino? La cosa dovrebbe stupire non più di tanto, anche se fa male al cuore. Dovremmo, infatti, essere realisticamente preparati alla fine della scelta dell’Umbria come luogo ideale per set cinematografici. Oggi, ormai, tutt’al più le nostre città e i nostri siti servono a girare alcune scene da montare nell’universo fiabesco del regista, che si affida a sensali del posto per trovare la merce rara di una grotta, il bene prezioso della radura incontaminata sul limitare di un bosco. Finita l’Umbria Film Commission, è cominciata l’archeologia cinematografica, come si potrà vedere facendo un giro a Papigno.
Studios a parte, la parabola discendente di un certo set globale umbro è scritta nei tre “Francesco” di Liliana Cavani, che negli anni Sessanta, per il primo “Francesco”, ha trovato in Assisi il luogo dell’equilibrio rappresentativo, negli anni Ottanta, per il secondo “Francesco”, ha dovuto affittare la Rocca Paolina non trovando più Medioevo ad Assisi e per il terzo “Francesco” si è arrabattata come meglio ha potuto, per alcune scene, nella campagna umbra. I “Carabinieri” di Città della Pieve e “Don Matteo” conteso tra Spoleto e Gubbio non colmano l’assenza del set umbro, con loro le città umbre si sono prestate a fare da esterni a storie di irriverente monotonia, la nobiltà dei tratti medievali e rinascimentali si è adeguata alle esigenze della fiction. In un solo caso, con “Eroi per caso”, la miniserie girata in gran parte a Vallo di Nera, l’Umbria ha dato il meglio di sé facendo immaginare, nel borgo della Valnerina, luoghi del fronte della Guerra Mondiale, sul finire del conflitto, nel 1918. Ecco perché gli studios di Papigno servirebbero eccome, ancora oggi, perché rappresentano un nucleo non compromesso con “mirabilandia” umbra, perché sono belli racchiusi nella loro gola naturale, perché sono una magica sfera globale e perché i sogni del cinema devono vivere in disparte la loro incubazione. Se, quando si parla della Telfer, non si mettono avanti queste questioni, di cos’altro rimane da parlare? Davvero dell’archeologia industriale, topos ternano per eccellenza? Non ne sono convinto. Credo, piuttosto, che qualcuno su Papigno, e non solo a Terni, dica grosse bugie, a giudicare dalla formidabile somiglianza che la passerella metallica della Telfer assume sempre più con il naso di Pinocchio che Benigni deve avere dimenticato negli studios.

 

 

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