L’Inghilterra è un’isola

di Pierluigi Castellani

Che l’Inghilterra sia un’isola è un dato di fatto incontrovertibile. Ma che lo voglia rimanere ad ogni costo lo hanno detto i suoi elettori, che hanno deciso di uscire dall’Europa. C’è certamente il retaggio di un forte nazionalismo con radici nell’antico impero. C’è il desiderio di chiudersi ad un mondo sempre più globalizzato sperando di poter da soli vincere le sfide del terzo millennio, confidando sulla propria capacità di essere ancora la guida morale dell’occidente, che ha accettato senza battere ciglio di adottare la lingua inglese, e forse anche la sua cultura, come il nuovo esperanto e come il veicolo di riferimento per la nuova internazionalizzazione telematica. Gli inglesi hanno quindi pensato che il mondo, che parla la lingua di Shakespeare, non può fare a meno di loro e che quindi il loro rinchiudersi nell’isola ha solo i vantaggi di un azzardo, che però conserva indefiniti tutti i contorni. Certamente ha perso l’Europa, perché potrebbe sgretolarsi se anche altri paesi vorranno vivere questo azzardo. Già qualche scricchiolio si sta avvertendo perché i populismi ,che stanno avanzando in tutto il continente, rinfrancati dal successo del referendum inglese pensano di avere più di una ragione per riproporre nei propri paesi il quesito referendario, che in Gran Bretagna ha vinto il 23 di giugno. Si rischia così che tutto quello, che è stato costruito in questi sessanta anni di faticosa costruzione europea, vada irreparabilmente perduto. Ma non saranno tutte rose e fiori per l’Inghilterra. La Scozia e l’Irlanda del Nord, che non vogliono uscire dalla UE, possono rimettere in discussione la loro fedeltà alla corona inglese. E quindi chi ha voluto staccarsi dall’Europa per riaffermare la propria grandezza nazionale rischia in questo modo non già di far deflagrare l’Europa bensì proprio il Regno Unito. Senza contare le ripercussioni sul piano economico e finanziario perché l’uscita dall’UE rende più fragile la sterlina e ridimensiona la city londinese come centro degli affari europei. Ma l’Europa ne viene certamente indebolita perché nel voto del 23 giugno c’è stato sicuramente una componente di avversione all’Europa dei burocrati. Se Bruxelles infatti viene percepita come qualcosa che mette solo lacci e lacciuoli agli stati nazionali senza offrire opportunità, allora anche l’Europa deve cambiare ed abbandonare il volto arcigno dell’austerity per assumere invece quello di una comunità solidale, che crea sviluppo e progresso sociale. Quindi se dopo il voto del 23 di giugno l’Inghilterra è sempre e più un’isola anche l’Europa deve interrogarsi sul proprio futuro e soprattutto deve chiedersi se vuole essere un continente con comuni obbiettivi superando la dicotomia tra un Nord sviluppato e rigoroso ed un Sud spendaccione e bisognoso di assistenza. Insomma l’area continentale dell’UE non può esser solo una zona di libero scambio, ma anche il luogo delle opportunità e della solidarietà. Solo così l’Europa può riprendere il suo cammino, che non può certo essere interrotto dai risultati del referendum del 23 giugno.

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