DIS…CORSIVO. APOLOGO DELLE LAVANDAIE

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Uno storico, venuto a bella posta nel paese dell’ape regina del quale ho parlato ieri, si fece raccontare dalle lavandaie locali la vicenda della fornaia che da umile artigiana comandava su tutti grazie all’intesa con molti personaggi influenti.

Voleva sentire la voce del popolo, le ricostruzioni ufficiali delle gazzette lo lasciavano diffidente. Si esponeva a qualche critica, per così dire, “scientifica”: “le chiacchiere delle lavandaie...!”, ma decise di non tenerne conto. Sapeva di molti gazzettieri che, a corto di novità di cronaca, si inventavano tutto di sana pianta. Da loro non avrebbe accettato nessuna lezione di fondatezza delle fonti. Preferiva rischiare, andare lui stesso al fiume, cercare di intromettersi nei discorsi delle lavandaie, sperare che recitassero con la maggiore naturalezza possibile la loro parte.

“Vuole sapere che pensiamo veramente della fornaia?” disse una spigliata trentenne senza interrompere la battitura dei panni sulla pietra. “Questo pensiamo, che quaggiù non l'abbiamo mai vista e non sappiamo nemmeno a chi dà a lavare i suoi panni sporchi. Qui ci danno lavoro nobili e borghesi, anche qualche poveraccia che non ce la fa più, divorata dall'artrite. Ma le lenzuola e gli asciugamani della fornaia qui al fiume non sono mai venuti. Brutto segno, mi creda, brutto segno”.

Come inizio non c'è male, rifletteva lo storico, la giovane lavandaia sapeva inquadrare bene la situazione. Non si distraeva dalla sua occupazione e rilanciava continuamente il discorso: “Come fare a non credere a quello che si sente dire quaggiù: che, cioè, anche per lavare i panni sporchi l'ape regina si regola sul patto che ha fatto con tanti politici e che lei e tutti i soci mandano indumenti e capi d'ogni tipo in una lavanderia di Roma? Laggiù mica lavano al fiume come facciamo noi, hanno inventato certe macchine che fanno tutto da sole. Il nostro lavoro, prima o poi finirà!”

La bella ragazza, dicendo così, s'era tirata su una ciocca di capelli che le scendeva fino al seno e subito si coprì, per pudore, con le mani bagnate, la camicetta che lasciava intravedere le sue coppe.

“E ti lamenti? Non è ora che finisca questo nostro lavoro tanto pesante e scomodo?” gli rispose una lavandaia più anziana, che aveva l'aria di essere la capogruppo di quella decina di donne piegate sulle sponde del fiume.

“Noi non ci tutela nessuno” s'intromise un'altra, più lontana, parlando a voce molto alta per farsi sentire anche dallo storico. “E non dico solo per la paga che prendiamo, ma per farci avere un minimo di considerazione nella società. Adesso, se vogliono offendere qualcuno, di quello dicono: chiacchiera come una lavandaia...”

“Però votiamo, al nostro voto ci tengono, li contano ad uno ad uno. Del nostro voto non dicono che è pettegolo come le chiacchiere di una lavandaia” rilanciò una donna sulla quarantina, che aveva accanto a sé un figlioletto di pochissimi anni. Il bambino giocava in quella gora d'acqua e sapone con le mani innocenti di chi vuole far prendere la corrente del fiume al gorgo della sporcizia e della pulizia che facciamo, tutti, del nostro corpo, delle nostre vesti, dei nostri animi e che consegnamo al lavoro delle lavandaie.

Lo storico sentì di essere andato un po' troppo in là con i pensieri, di avere preso il largo che, però, quell'innocente figlio di lavandaia gli indicava, continuava a mostrargli.

Tornò alla sua ricerca, si concentrò su tutte le parole che erano venute da quelle donne piegate sul greto del fiume.

Gli fu chiaro che tutti quei commenti non somigliavano alla politica, non erano una metafora della partecipazione e del voto. Erano esattamente la politica e i partiti, il voto e la partecipazione, il voto espresso e ha avocato da una classe politica che tende a dimenticare, oggi, ciò che ha detto con te, ieri.

Entro pochi anni - disse fra sé - quelle lavandaie, quel popolo bisognoso di lavorare e di parlare, non sarebbero esistiti più. E non sarebbe, dunque, neppure più esistito quel vasto consenso popolare sul quale poggia il consenso degli intellettuali e dei borghesi, di chi è forte nel far valere i propri interessi parziali dimenticando la base, onesta e sincera, ciarliera e il più delle volte ubbidiente, che si specchia nel fiume come nella propria coscienza. Chi avrebbe più sostenuto, allora, il potere nell'alveare?

Provò a far avere questo apologo e questo messaggio all'ape regina, ma nessuno gli dette la garanzia che la potentissima fornaia l'avesse mai letto.

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