Dis…corsivo. “Allora io ti baciai…”

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Fra il 18 ottobre e il 4 novembre 1915 fu combattuta, tra l’esercito italiano e quello austro-ungarico, la Terza battaglia dell’Isonzo (la prima era avvenuta dal 23 giugno al 7 luglio, la seconda dal 18 luglio al 3 agosto). Così diceva il bollettino emesso da Cadorna il 19 ottobre: “Appoggiate dal fuoco intenso ed efficace delle artiglierie, le nostre fanterie hanno ieri iniziato azioni offensive in più punti lungo la frontiera del Tirolo-Trentino”. Alto Cordevole, Col di Lana, Falzarego, Carnia e Carso le principali zone del combattimento, con un disegno strategico, da parte italiana, meno avventuroso di quello dei mesi estivi, e un ruolo potenziato affidato all’artiglieria e all’aviazione. I risultati, però, nonostante i toni trionfalistici, furono, alla fine, modesti e molto costosi sul piano delle vite dei soldati caduti.

Perugia, durante questi fatti di guerra, fu colpita al cuore da una morte particolarmente illustre e sentita: Enzo Valentini, figlio del conte Luciano, sindaco della città.

Il 22 ottobre, mentre “L’unione liberale” dava la notizia, a tutta pagina, che le truppe italiane, vittoriosamente, avevano espugnato i monti Melino e Setolo, sul Col di Lana perdeva la vita il giovanissimo volontario Enzo Valentini. Nato nel 1896, convinto interventista, studente universitario, si era arruolato volontario nel 51º reggimento di fanteria “Cacciatori delle Alpi” era stato destinato al fronte della Marmolada. Morì, appunto, il 22 ottobre, in zona Padon-Marmolada, durante l’attacco al Sasso di Mezzodì, colpito da cinque pallottole di shrapnell, tre delle quali al petto.

L’annuncio della sua morte – riportato dall’”Unione liberale” il 28 ottobre – era stato dato con una lettera indirizzata, il 23 ottobre, dal suo diretto comandante Capitano Vincenzo Colagè, dal fronte a Perugia: “Caro Torelli, cerchi Lei il modo di dare il dolorosissimo annunzio: io non ne ho coraggio, lo confesso, Lei meglio di ogni altro, trovandosi vicino alla famiglia, potrà riuscire nel pietoso incarico”.

Tutta la “patriottica nobiltà” di Perugia si risentiva e associava il nome di Enzo Valentini a quello di Pompeo Danzetta, morto il 9 maggio 1848, durante la prima guerra d’indipendenza, negli scontri a Cornuta.

L’animo del giovane Valentini, però, aveva trasformato l’ideale risorgimentale in una lezione, molto moderna, di spirituale redenzione. Di lui scriveva il capitano Colagè: “La sua fede, il suo cuore magnanimo, la sua mente eletta, si assommavano mirabilmente in una forza morale ed ideale che rendeva ferrea e quasi francescana la sua volontà”. Ed egli stesso testimoniava la sua fede in questo passo di una delle tante lettere scritte alla madre: “Cerca, se puoi, di non piangermi molto. Pensa che, se anche non torno, non per questo muoio. Lui, la parte inferiore di me, il corpo, soffre, si esaurisce, muore. Io no, io, l’anima, non posso morire, perché sono da Dio ed in Dio devo tornare; sono stato creato per la gioia, ed attraverso alla gioia, che è in fondo ad ogni dolore, alla gioia eterna debbo tornare”.

Perugia rese omaggio al “puro fior d’eroismo” di Valentini senza conoscere fino in fondo, sul momento, questa sua privatissima dimensione spirituale o, perlomeno, essa risalta, oggi, più di quanto non ha potuto fare esattamente un secolo fa. Allora prevalse un fortissimo e dignitoso senso di cameratismo che, per quanto si richiamasse agli ideali risorgimentali, sentiva di essere proiettato verso una nuova cultura: “Enzo Valentini” scrisse Mariano Guardabassi “è morto con il coraggio e con la forza, che lo facevano amare e ammirare in vita: gli amici veri hanno la forza di ricordarlo senza piangere e il coraggio di imitarlo”.

E sulla sua figura, sul suo “sguardo luminoso ispiratore di profonda poesia” (Luigi Danzetta), scendevano le parole della donna che lo aveva amato, in una lettera-poesia estremamente moderna a distanza di un secolo:

“Mio Enzo.

Addio.

Posso soltanto salutarti così io che avrei voluto serrarti al petto, sentire da vicino il tuo alito affocato, il sudore caldo della tua vittoria.

Addio Enzo.

Quando ardevi bello di desiderio e ansioso di vivificarti al santo fuoco del sacrificio, allora io ti baciai, mentre dinanzi alla città che ti salutava tacitamente giuravi di non lasciare mai la piccola bandiera che ti veniva affidata; e tu non l’hai lasciata, no, la piccola bandiera, sei caduto con essa, e hai nascosto il piccolo drappo sotto il tuo corpo.

L’idea era nata in te fecondata da un seme sensitivo e l’idea nata s’era fatta grande e t’ abbracciava tutto: ‘l’arte nella scienza, la scienza nell’arte’ e non erano tentativi puerili a condurti all’affetto, no, erano prove tenaci e lotte salutari.

Partivi bello, nella tua modesta divisa, e la tua bianca mamma, che ti salutò da lontano, non pianse; oggi ti vedo forte, grande come l’eroe di una leggenda; e non piango, no, invece tendo le braccia alla tua persona ingigantita.

Così mi consolo, e vedi chiamo la tua cara mamma, mi stringo vicino a lei e le dico piano, a lei sola:

‘No, non è morto, vive, arde ancora del suo fuoco; senza consumare, come il ricordo. Enzo vive, il tuo, il mio, vive, eccolo là, ha il petto insanguinato… non è nulla, è gloria…, è pallido… non è nulla, è luce… Senti la sua voce, ci chiama; ma noi non possiamo raggiungerlo; cammina sicuro, veloce verso la vetta, solo, incontro all’inesistibile confine del suo Oltre.

E tu Enzo sorridi, sorridi ancora.

Io ti dò l’ultimo bacio sulla purissima fronte bianca d’avorio’”.

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