DIS…CORSIVO. GLI ACCAMPAMENTI
NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Non c’è, praticamente, un centro storico umbro, dai più grandi ai più piccoli, che non debba allestire tende e gazebo, chioschi e padiglioni nelle proprie piazze e lungo i vicoli per competere nella corsa all’offerta della migliore qualità merceologica in ogni periodo dell’anno.
La cosa colpisce in maniera particolare nei giorni che viviamo, di avvicinamento a Natale, ma se ci spingiamo, con la rimozione delle abitudini, verso le sagre stagionali di primavera, estate e autunno, rifletteremo, senza sbagliarci di una virgola, su quanto ormai le nostre città – o paesi o borghi o come ci venga meglio chiamarle – non possano fare a meno di ricorrere a questa estesa occupazione di suolo pubblico, al di fuori delle vetrine che delimitano il tradizionale negozio – o bottega o emporio o spaccio o come ci venga meglio chiamarlo -, per darsi un tono di tradizione e conferire un maggiore potere di richiamo turistico e culturale nei confronti di tutti quelli che, nelle grandi città – città e basta -, non potranno mai respirare l’atmosfera rilassante e dolce della provincia.
Quante ambiguità, però, in tutto ciò! A me pare che la confusione più grande sia nata da quando i negozi veri e propri dei centri storici, portatori di un mercato di tradizione, sono stati soppiantati da magazzini ultramoderni e ultraluminosi, sempre esagerati rispetto alla reale compatibilità, spaziale e concettuale, con gli antichi fondachi aperti su piazze e corsi di città. Tra le vecchie attività commerciali di una trentina d’anni fa – spente e sempre un po’ profumate di polvere – e le attuali boutique di massa – libere dalla polvere, ma ricche di ogni tossicità atmosferica per avere le porte sempre spalancate, d’estate e d’inverno – non c’era proprio una via di mezzo, un contemperato assortimento di varietà espositive e di tipologie merceologiche?
Oggi, consapevoli del disastro combinato cancellando la tradizione dei negozi fuori tempo ma non fuori funzione urbanistica e culturale complessiva, le città – o paesi o borghi o come ci venga meglio chiamarle – tentano il recupero con la politica degli accampamenti, tutti uguali e tutti eretti a protezione di merce sempre meno dotata del marchio di tipicità, ma molto, molto omologata su tutti i fronti. Indietro non si torna, questo è certo: non tornerà mai più, a Perugia, una libreria come Simonelli e simili, non tornerà l’amabile Ceccucci e non ci sarà spazio neppure per un “grande magazzino” come la Standa. Nessuno è così sciocco da cadere nel tranello della mentalità conservatrice, che in fondo alla coscienza tutti, più o meno, conserviamo e a volte ascoltiamo, soprattutto spinti da quel sogno suggestionante che ci prende durante le feste di fine d’anno.
Indietro non si torna, ma andando avanti con gli accampamenti posizionati ormai pressoché stabilmente in ogni angolo di città dove si potrà mai arrivare? Il compromesso che è stato impossibile nei decenni passati non può diventare attuale oggi, per scongiurare l’eternità di queste provvisorie insegne di posticcia tradizione che sono i nostri mercatini? E, soprattutto, chi dovrebbe occuparsi di gestire un recupero di tipicità dentro i negozi e, insieme, una qualificazione meno generica degli accampamenti eretti fuori dei negozi e della loro offerta?
Con tutto il rispetto per il potere che le merci – pur sempre oggetti inseparabili dai nostri sogni – hanno nel configurare la nostra visione del mondo e il nostro rapporto con le persone che avviciniamo, nessuno osa immaginare che sia solo un problema commerciale. I commerci hanno sempre espresso e messo in vetrina i tratti salienti della mentalità di fondo di intere società. La società attuale, coi suoi accampamenti così piattamente ripresi dalle telecamere dei telegiornali, esprime fino in fondo la sua mancanza di radici stabili e l’accomodamento a una transitorietà economica e a un nomadismo culturale di cui sono protagonisti non solo anziani rivenditori ma giovani esercenti rosi dalla crisi. Per questo, soprattutto per questo coinvolgimento dei giovani, il problema riguarda il domani, il futuro prossimo lavorativo delle generazioni dei nostri figli. È insieme a loro che va riprogettata la qualità dell’offerta di merci dei nostri centri storici. Non è assolutamente detto che i nostri accampamenti da adulti debbano diventare i negozi senza storia, cultura, ideali e valori del loro futuro, qualunque sia l’idea di futuro che essi hanno da sviluppare.