Letture. La fuga

di Maurizio Terzetti / Il caldo e l’afa di agosto non davano fastidio a Michele mentre, con passo deciso e senza mai fermarsi per guardare indietro, scendeva risoluto verso la stazione. Ogni tanto, per rassicurarsi, si cercava, nel taschino interno della giacca che portava sottobraccio, la busta in cui aveva ripiegato alcune centinaia di lire. S’asciugava il sudore con un fazzolettino che poi stringeva forte nella mano sinistra, per sentirsi ancora più forte e rinfrancato, ma questo era il solo cedimento al caldo debilitante del mezzogiorno. Per il resto, divorava letteralmente la via, che a mano a mano che scendeva era diventata più appartata, in pratica quasi un sentiero fra i campi, deserti anche quelli. Tutti, anche i più poveri contadini, a quell’ora affollavano la fiera, la grande fiera di metà agosto, che si teneva dall’altra parte della città.

Anche Michele, uscendo di casa, aveva detto al padre che andava a Monteluce, per vedere di comprarsi qualcosa come aveva fatto sempre. Solo che, quest’anno, ormai ragazzo di quattordici anni, gli era stato accordato il permesso di andare da solo, il padre non aveva avuto esitazioni, tanto – gli aveva detto – si sarebbero rivisti alla fiera.

E, invece, il ragazzo aveva preso un’altra direzione, stava mettendo in atto un piano di fuga che aveva premeditato a lungo e per realizzare il quale aveva fatto qualche risparmio, qualche sottrazione dalle casse familiari, ricevendo anche un prestito sulla parola dai figli del conte Trampetti, del quale suo padre era il giardiniere.

Non gli era ancora ben chiaro, mentre scendeva alla stazione, se e quanto il gruzzolo di banconote gli sarebbe bastato per fare quanto aveva in mente. Del fronte di guerra aveva un’idea vaga, che s’era fatto leggendo i giornali e, una sera di luglio, partecipando a una conferenza patriottica in cui alcuni militari avevano mostrato la cartografia delle zone di combattimento. Avido di sapere, ma cercando di contenersi, s’era segnato i nomi dei paesi e delle città che dovevano costituire la retrovia e li aveva riscontrati il più possibile su alcune carte geografiche che sempre i figli del conte gli avevano fatto consultare.

Da lì, da quei paesi del Veneto, al luogo dove combatteva Luigi, suo fratello maggiore, non sapeva quale strada avrebbe dovuto prendere, né con quali mezzi ci si andava. Ma non era importante – s’era detto – ci sarebbe arrivato anche a piedi e già si vedeva avanzare in mezzo a montagne sempre più alte, fra gole e su per mulattiere, schivando la pioggia, la grandine e, naturalmente, i colpi di fucile provenienti dalle trincee austriache.

Stava talmente con la testa lassù, dimentico del dolore che stava dando ai suoi familiari, che il fischio di un treno lo fece tornare alla realtà. Era ormai arrivato alla stazione, ci mancavano pochi passi, e quello che aveva fischiato non doveva essere il suo treno. Estrasse l’orologio dal taschino dei pantaloni e verificò l’ora: per il suo treno c’erano ancora, buoni, almeno trenta minuti, più che sufficienti per fare il biglietto e per andare al binario. Basta, non doveva fare altro, la sua impresa era cominciata, l’importante era mettere più strada possibile fra lui e i suoi genitori prima che si accorgessero della fuga e si mettessero, inevitabilmente, a cercarlo.

L’atrio della stazione gli sembrò meno imponente del solito anche se, al momento di fare il biglietto per Venezia, si sentì piccolo e smarrito di fronte all’impiegato che, per nulla sfatto dal caldo, dall’alto della sua postazione, gli consegnava il documento di viaggio leggendogli addosso gli evidenti indizi emozionali di una fuga che però non volle, o non seppe, indagare.

Così Michele, qualche minuto dopo, era sul treno per Venezia, sapendo di dover scendere sia a Firenze che a Bologna per cambiare convoglio. A differenza dello sguardo che gli aveva riservato l’addetto alla biglietteria, quello della signora che adesso aveva davanti, nello scompartimento, non lo faceva sentire in soggezione. Era tenero, materno, indulgente, di donna che non vuole altro che stenderti addosso le sue ali protettrici. Michele ci vedeva la madre, ma sentiva che oltre la madre, in quella donna, c’era qualcos’altro, una sensazione che lo turbava fino a farlo arrossire.

Alla signora Marianna – avrà avuto sui quarant’anni – non era stato difficile rompere il silenzio con quel ragazzo così strano, che voleva apparire molto più grande della sua età poco più che bambinesca. E, con grandi grazie, si era fatta raccontare tutto, dalla fuga da Perugia alla meta del fronte, dall’infatuazione del ragazzo per quella guerra europea alla passione per il fratello più grande, Luigi, che era partito, già da giugno, per le trincee della prima linea.

“Sa che anch’io” lo interruppe delicatamente la donna accarezzandogli il volto fino a fargli provare un gran brivido “tra un po’ vado al fronte?”

“Davvero?” si riprese Michele “e che ci va a fare, lei, ha un fratello anche lei lassù?”

“Oh no, Michele! Io vado a cantare per i soldati, faccio parte di una compagnia di attori ai quali l’Esercito sta commissionando spettacoli per tirare un po’ su il morale. Pare che questa guerra debba durare parecchio”.

La cosa era subito piaciuta molto al ragazzo, che nella sua mente esaltata aveva aggiunto questo particolare non da poco: un soldato è un eroe al quale va lo sguardo riconoscente della Patria, ma anche, in particolare, l’amore e l’affetto delle donne, che vanno fino quasi alle trincee per onorare con i loro canti i maschi combattenti.

Aveva fatto proprio bene a partire – diceva fra sé -, stava scoprendo, da subito, tanti aspetti della vita degli eroi che a Perugia, nella sua stanzetta, mai avrebbe potuto immaginare. Pazienza se i suoi genitori soffrivano un po’: in fondo andava pur sempre a trovare suo fratello Luigi, un eroe, e faceva il viaggio insieme a una donna, un’eroina, un’affascinante missionaria, bella, vestita con un grande abito, un voluttuoso cappello e tanto profumo da stordire un esercito intero.

Intanto, a rimanere stordito era proprio lui, il piccolo grande Michele, che Marianna continuava spontaneamente a vezzeggiare per i grandi occhi neri e per i bei lineamenti regolari dai quali era colpita. La compagnia del ragazzo gli piaceva, un misto di sensuale e di materno s’era impadronito della sua bellissima figura di cantante, abituata a fare colpo sulle platee di Roma e d’Italia.

Aveva deciso, però, che oltre non sarebbe andata, non avrebbe concupito il ragazzo. Semmai, fu lui, per quanto preso dalla sua fuga verso il fronte della guerra, a desiderare di cedere alla tentazione di scendere con lei, a Firenze, per proseguire il viaggio l’indomani, cavandosela in qualche modo col cambio del biglietto.

E così fece. Stupendo la stessa Marianna, si comportò da giovane uomo innamorato, organizzando la discesa dal treno, il trasporto dei bagagli della signora (lui non aveva neanche una valigetta), il noleggio della carrozza fino all’Hotel in cui aveva deciso di fermarsi Marianna.

In albergo, però, prese le redini la donna, denunciando il ragazzo come suo nipote e riuscendo a far passare la cosa senza troppi problemi burocratici.

A Firenze, passarono una serata indimenticabile, calda e afosa come a Perugia. Cenarono, passeggiarono a lungo, Michele imparò ben presto come si sta vicino a una donna così elegante e disinvolta, si lasciò andare anche a qualche battuta un po’ più audace, non sapendo neppure lui che cosa fosse, in simili circostanze, l’audacia.

Rientrarono tardi e Marianna congedò amabilmente Michele sulla porta della stanza del ragazzo. Lui fece per abbracciarla, lei lasciò fare e ricambiò con un bacio affettuoso sulla fronte.

I sogni dell’adolescente, quella notte, furono un incendio di passioni che si accavallavano fino a dargli la febbre: Luigi saltava sulle trincee nemiche come un’aquila, lui, Michele, lo chiamava da lontano sotto la pioggia dei proiettili, finché a un certo punto, dopo aver fatto migliaia di feriti e di morti fra i nemici, si ritrovarono anche loro entrambi feriti, sanguinanti, laceri, ma la dolce mano di Marianna cambiava le bende delle loro ferite e cicatrizzava con baci – quelli che a Michele sembravano baci – il sangue che usciva copioso.

La mattina seguente, la febbre era sparita. Marianna accompagnò, a piedi, per il centro di Firenze, il ragazzo che aveva ripreso l’ardimento del giorno precedente. Adesso sì che andava con vero, maschio vigore, da suo fratello al fronte!

Ma mentre la donna, per non fargli pesare eccessivamente il distacco, s’era allontanata già dall’ingresso della stazione lasciandolo al suo destino con il cuore gonfio di uno strano affetto, Michele, giunto alla biglietteria, immensa rispetto a quella pur grande di Perugia, si sentì di colpo tremare le gambe.

Le indagini fatte dopo la denuncia della sua scomparsa erano state davvero celeri. Fu avvicinato da due funzionari della questura, in borghese, che l’avevano visto entrare in stazione e avevano capito, dalla descrizione del ragazzo in loro possesso, che Michele Berzilli, scomparso la sera avanti da Perugia, poteva essere lui.

Lo chiamarono per nome e cognome, con la dovuta discrezione, e il ragazzo si consegnò loro come solo un soldato, un uomo, un eroe della grande guerra, ai suoi occhi, e agli occhi di una bellissima attrice, avrebbe saputo fare.

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