Paolo VI e mons. Romero, due santi per il mondo di oggi

di Pierluigi Castellani

Con una delle sue felici intuizioni, che sono poi veri e propri gesti profetici, Papa Francesco innalza sugli altari due nuovi Santi: Paolo VI e mons. Oscar Arnulfo Romero, indicandoli così all’attenzione del mondo in questo difficile secolo di avvio del terzo millennio. Apparentemente questi due nuovi santi sembrano non aver nulla in comune: l’uno vissuto quasi sempre all’ombra del Vaticano e l’altro nella tormentata terra latinoamericana da cui pur giunge, appunto dalla periferia del mondo, anche Papa Bergoglio. Ma sono due testimoni del Vangelo, che hanno da dire molto al mondo contemporaneo, che sembra rifiutare ogni coerente e generoso impegno in difesa degli ultimi della terra ed ogni approfondito approccio al mondo della cultura e della politica. Paolo VI è stato il punto di riferimento intellettuale della generazione dei giovani universitari cattolici, che hanno contribuito a scrivere la Costituzione e che hanno alimentato con il loro impegno la vita democratica dell’Italia e con i quali ha saputo anche condividere amicizia e solidarietà fino al suo drammatico appello alle brigate rosse per la liberazione di Aldo Moro. Senza Montini non ci sarebbe stato per il cattolicesimo italiano, e non solo, il pieno sdoganamento del pensiero di intellettuali come Emmanuel Mounier e Jacques Maritain, che hanno dimostrato come debba conciliarsi la fedeltà agli ideali democratici ed alla fede cattolica, né mai nessun Papa si sarebbe azzardato a dare dignità alla politica fino a definirla “la più alta forma di carità”. Certo in tempi, come quelli di oggi, di antipolica e di feroce lotta a qualunque casta, che abbia una qualche legittimazione politica, parlare di politica come di più alta forma di carità può sembrare un azzardo o quanto meno può far sarcasticamente sorridere quanti dipingono la politica come il problema e non già come la soluzione. Ma non è proprio dei profeti apparire fuori del tempo ? Ed in tempi di rinnovato conservatorismo ,anche religioso, non è quasi provocatorio canonizzare chi ha saputo raccogliere l’eredità di Giovanni XXIII e portare a termine il Concilio Vaticano II e la riforma liturgica? Così è in qualche modo pure per il vescovo salvadoregno Oscar Arnulfo Romero, che in vita ebbe un rapporto di filiale amicizia con Paolo VI, ma che rimase a lungo incompreso, se non apertamente osteggiato, dai suoi stessi fratelli vescovi della piccola repubblica de El Salvador, per la sua dedizione totale al messaggio evangelico fino al martirio. L’accusa che a lui si rivolgeva era quella di essere un comunista soltanto perché ricordava che “la religione cristiana non ha un senso soltanto verticale, spiritualistico, dimentico della miseria che lo circonda”. E metteva in guardia la Chiesa di non essere troppo arrendevole verso il potere costituito, che non si faceva carico dei più poveri, fino a dire che “ una Chiesa che non è perseguitata, ma gode dei privilegi e dell’appoggio dei sistemi di questa terra, faccia attenzione, perché non è la vera Chiesa di Cristo”. Ed ancora invitava a “ predicare la testimonianza sovversiva delle beatitudini”. Un cristiano così non poteva non dare testimonianza della sua fede fino al martirio, fino a quando 38 anni fa gli squadroni della morte non lo hanno ucciso mentre celebrava l’Eucaristia. Due Santi quindi che Papa Francesco non invita a collocare solo sugli altari, ma a farne vivi testimoni del nostro tempo per ricordare a tutti che la fedeltà al Vangelo implica l’accettazione su di sé delle sofferenze degli ultimi e per invitare a fare del potere ,che si esercita, solo un servizio per la liberazione di tutti dalle angosce e dalle ansie del tempo in cui ci è dato vivere.