DIS…CORSIVO. “IL MIGRANTE È UN GERUNDIO”

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Tutti buoni, l’altra sera, con Matteo Salvini a “Virus”. Tanto il conduttore Porro quanto il giornalista Polito hanno fatto finta di non sentire il madornale errore di sintassi, e forse anche di grammatica,

che il leader della Lega Nord ha commesso equivocando paurosamente e del tutto spontaneamente sull'uso di un gerundio al posto di un participio presente. Il verbo in questione è “migrare”, il termine controverso è “migrante”, il termine che è stato indicato agli italiani come portatore del significato della parola “migrante” è “gerundio”: “il migrante è un gerundio”.
È fin troppo facile prendersela, come molti hanno fatto, con la scarsa dimestichezza di Salvini con i fondamentali della lingua italiana. Non è questo ciò su cui occorre tornare, né mi preme tornare. Proseguire lungo questa correzione al modo di parlare di Salvini sarebbe inutile, scontato e tutto sommato indice di presuntuosa intellettualità, cioè di tutte le cose che vengono imputate, a torto o a ragione, alla cultura di sinistra.
Però qualcosa mi spinge a riprendere la sgrammaticatura di Salvini e questo qualcosa riguarda direttamente il senso e il buon senso degli italiani, in qualunque regione abitino e da qualunque maggioranza politica siano governati.
Il senso e il buon senso vorrebbero, secondo me, che si usi davvero il gerundio in casi, come questi, dolorosissimi per la coscienza nazionale, dei migranti.
Non il gerundio, tuttavia, ma un suo assimilato come il “gerundivo” indicano, nella progenitrice sintassi latina di tutta l'Italia, qualche cosa che occorre fare, sono una sorta di imperativo di cui ogni verbo si carica nel momento in cui si vuole precisare che non si sta semplicemente descrivendo una situazione, ma si cercano tutte le possibili vie per risolvere la criticità di una data situazione.
La costruzione sintattica latina corrispondente a tutto questo stato di cose – che abbiamo dentro più di quanto pensiamo - si chiama perifrastica passiva e ha una costruzione personale (“Caesar omnia uno tempore erant agenda: signum tuba dandum, ab opere revocandi milites, acies instruenda”, cioè “Cesare in un solo momento doveva fare tutto: dare il segnale con la tromba, richiamare i soldati dal lavoro, disporre la linea di battaglia”) e una impersonale (“Faciendum est mihi illud quod postulat”, cioè “Io devo fare ciò che egli chiede”).
Diciamo, insomma, che Salvini, “sbagliando”, “errando”, è andato molto vicino al senso e alle realtà delle cose del “migrando”. Dicendo “gerundio” intendeva far risaltare, forse più che altro con riferimento al suono della parola, che il processo della migrazione non è un infinito spostarsi per l'Europa da parte dei popolazioni africane ma un loro deliberato occupare il suolo italiano. E questa è la sua linea politica.
Ma dissotterrando, palesemente contro la sua volontà, il parente del gerundio, lo sconosciuto “gerundivo”, ha riportato in superficie il dovere della coscienza e la responsabilità della politica. “Migrandum est”, cioè interi popoli non hanno, ad oggi, altre chances, non si può fare a meno di migrare. Come, però, non si può fare a meno di aiutare e soccorrere, arginare e operare alle radici del fenomeno, chiusi o liberi che ci sentiamo nella perifrastica passiva della nostra attiva solidarietà.

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