Dis…corsivo. Columbus Day con Alberto Burri

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Ieri l’America ha festeggiato il Columbus Day. Ogni anno, dal 12 ottobre 1866, questa data segna per tutti gli americani un tuffo nella memoria più sconfinata che essi possano in qualche modo vantare. Questa memoria lontanissima – il 12 ottobre 1492 – è legata a un italiano e gli italiani, dal 12 ottobre 1866, hanno organizzato una festa per la scoperta dell’America da cui appunto è nato il Columbus Day.

Culturalmente, non mancano i motivi di contestazione per una festa che onora gli italiani a dispetto di secolari motivi di sopraffazione esercitata, da parte della comunità americana, sui nostri antenati. Ed è anche vero, però, che gli italiani, nonostante le infinite tribolazioni dei nostri emigrati in America, hanno saputo riscattare questo antico affronto e hanno contribuito non poco allo sviluppo della società americana.

Ma il fatto sul quale mi soffermo qui non riguarda questa resa dei conti fra i vecchi emigrati italiani sofferenti e gli americani strafottenti e rigorosi nel tutelare la loro Nazione, il loro Stato federale, dall’arrivo di tanta emigrazione, non solo italiana.

C’è, quest’anno, un motivo in più per associare l’italianità al Columbus Day e questo motivo riguarda l’apertura, avvenuta lo scorso 9 ottobre, della mostra di Alberto Burri “The trauma of painting”. Sempre a New York, sempre lungo la Fifth Avenue, dove si svolge la Grande Parata del 12 ottobre, c’è anche il Solomon R. Guggenheim Museum, punto d’approdo di tutta l’arte del mondo, della cosiddetta globalizzazione e internazionalizzazione di messaggi pittorici di varie epoche e latitudini, fra le quali, appunto, spicca oggi la figura di Burri.

Il grande evento dedicato a Burri in occasione del centenario della sua nascita, che ha dato luogo anche a polemiche da parte di alcuni critici italiani, ha un significato del tutto particolare perché fa risaltare, a confronto con la memoria lunghissima del Columbus Day, la memoria molto più corta, quasi da passato prossimo, dell’arte secondo come la intendono gli americani.

Credo che se accompagnassimo un americano medio, della classe media, a visitare la mostra di Burri, non sentiremmo dire da lui tutti i motivi di incomprensione di quest’arte che al fondo albergano in molte persone, a Occidente, nella vecchia Europa, e anche, diciamolo, nella più vecchia Italia, fino alla più lontana periferia provinciale, quella nella quale è nato Alberto Burri.

Ciò significa che è inevitabile che noi italiani ed europei non ci sentiamo ancora nelle condizioni mentali, culturali, intellettuali ed emozionali per comprendere fino in fondo la svolta che ha dato Burri all’arte contemporanea. In questo compito sono molto più facilitati i comuni visitatori americani, perché essi si misurano sulla memoria cortissima della loro tradizione culturale e la memoria lunghissima che istituiscono, o cercano di far riaffiorare, con il Columbus Day non è in grado di intaccare, a livello di tradizione artistica o di altro tipo estetico, il rapporto diretto con con la produzione dell’arte contemporanea.

Per gli americani l’arte è in netta prevalenza l’arte contemporanea: tutto ciò che non è contemporaneo è europeo, vengono a vederselo in Europa e, se è trasportabile, lo “valorizzano” in America secondo parametri di spettacolarizzazione museale molto più liberi rispetto a noi che abbiamo sempre da salvaguardare, cromosomicamente, una tradizione. In questo senso, Burri sembra veramente l’anello più adeguato a collegare il presente del gusto estetico degli americani con il loro breve passato, con la loro breve storia autoctona di produzione artistica.

Così, oggi, siamo in qualche modo orgogliosi di essere, come comunità italiana, il collegamento con la memoria più antica, anche se controversa, molto controversa, del popolo americano. Ma siamo ancora più motivati a capire i lontani parenti americani proprio in virtù del ruolo che esercita sulla loro mentalità un piccolo, grande esponente della nostra provincia, che ha saputo americanizzarsi al punto tale, dopo la seconda guerra mondiale, da far sentire le sue opere come patrimonio autentico della nazione americana, forse molto più di quanto sentiamo noi Burri come nostro patrimonio nazionale.

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