DIS…CORSIVO. NEW YORK CODICE 338

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Non ha fatto clamore, ma la notizia che una mostra tutta francescana – con al centro il manoscritto del “Cantico di Frate Sole” contenuto ad Assisi nel “Codice 338” del Fondo Antico Comunale, presso la Biblioteca del Sacro Convento – sta per inaugurarsi a New York, nella sede del palazzo delle Nazioni Unite, è pur sempre una di quelle da ispirare commenti e letture sotto un’infinità di sfaccettature. Finora, però, si è assistito al normale tourbillon del comunicato-stampa ufficiale e a poco più: l’opinione pubblica, le istituzioni, i commentatori umbri sembrano mantenere una insolita distanza dall’evento, intitolato “Frate Francesco: tracce, parole, immagini”.

Fra le varie voci che hanno accompagnato la presentazione dell’evento, mi ha molto colpito quella di Ken Hackett, ambasciatore Usa presso la Santa Sede: “Il pubblico americano – io penso – darà una buona accoglienza a questa mostra. Francesco è abbastanza conosciuto negli Stati Uniti, ma con l’avvento di Papa Francesco tutta la sua storia e la sua eredità hanno ricevuto una maggiore diffusione: la gente è alla ricerca del suo significato. L’idea di un Santo per la pace, un Santo per la gente, un Santo per l’ambiente con tutte le preoccupazioni che nell’ambiente si concentrano, avrà un riscontro positivo nel pubblico americano, sia tra i cattolici sia tra i non cattolici”.

Insomma, mentre ad Assisi e in Umbria siamo tutti convinti che San Francesco è noto sotto ogni latitudine e mentre padre Enzo Fortunato sforna dati da mirabilia quanto a contatti americani col sito del Sacro Convento, quanto a presenze fisiche di americani in Basilica (il 40 per cento dei sei milioni di pellegrini annuali), quanto a testimonianze di statunitensi illustri arrivati sulla tomba del Santo, mentre tutto ciò ci conforta nello spirito e incoraggia, in particolare, le speranze commerciali e turistiche di chi guarda, inevitabilmente, anche alla tasca, pare di capire, dalle dichiarazioni dell’ambasciatore, che il figlio di Pietro di Bernardone dovrà ancora una volta fare ricorso a tutta la sua proverbiale umiltà – che ce lo rende tanto, tanto vicino – per aprirsi un varco dentro le coscienze di un popolo che lo conosce solo “abbastanza bene”: su una scala di valori che, per gli americani, va dagli emigranti alle star, San Francesco non sarebbe propriamente un divo, ma un uomo di ieri di grande carisma per la pace e per l’ambiente che viaggia con un uomo di oggi, dallo stesso suo nome, ben altrimenti noto per l’opera di rinnovamento che sta tentando dalle fondamenta della Chiesa cattolica: Papa Francesco.Tutti i nostri problemi sul rapporto fra un Papa che ha preso il nome del Santo di Assisi pur essendo tutto fuorché un francescano, tutte le nostre diatribe teologiche e politiche sul ruolo che hanno il centro assisiate e le periferie del mondo agli occhi del Pontefice sarebbero destituiti di fondamento pensando che gli americani, i cattolici e i non cattolici, avendo bisogno di un Santo per l’ambiente,desiderano qualcosa di molto più immediato e concreto: semplicemente “mettersi alla ricerca del significato” del Poverello.

Sono tornato a leggere la dichiarazione di Ken Hackett e non riesco a sviluppare altre riflessioni diverse da quelle che ho appena proposto. Il testo è chiarissimo, la misura e l’equilibrio del diplomatico non lasciano certo sognare un’accoglienza da grandi numeri e da pathos metropolitano per San Francesco d’Assisi, specie, poi, se pensiamo che la mostra sarà ospitata, per una decina di giorni, nel freddo Palazzo di Vetro – luogo in cui i rappresentanti dei popoli della terra, sceneggiate sulla pace e fedi eterogenee a parte, non staranno lì a emozionarsi per pergamene del Duecento italiano – e che solo dopo, sotto Natale, farà tappa al Bourough Hall di Brooklyn.

Non sono considerazioni entusiasmanti, me ne rendo conto. Ma come può essere diversamente se la mostra “Frate Francesco: tracce, parole, immagini” non è che la riproposizione di quella ospitata, all’inizio di quest’anno, alla Camera dei Deputati, se quel “Codice 338” che vola a New York lo fa con una serie sterminata di rischi a fronte di un ritorno di immagine non proprio certissimo, se tutto, proprio tutto, sembra essere avvenuto come promozione mediatica pensata sull’onda lasciata dal magistero supersonico di Papa Francesco, se l’Umbria, tutta l’Umbria, sembra assente, al di là dell’ovvia composizione dei titoli di coda, dall’ideazione e dalla progettazione della trasferta newyorchese?

Viene voglia, allora, di stringersi ancora di più e con più forza che mai intorno al pensiero di quell’uomo tutto sofferenza e gioia che è stato San Francesco, di sentirsi raggiungere, a distanza di secoli, dal fascino del suo irresistibile potere sulle coscienze e sulle azioni, di partire con lui con destinazione il mondo sapendo che il mondo può chiuderci le porte in faccia. Viene voglia di dare un’anima alla mostra, di trasferire sulla pelle di ognuno di noi l’indifferenza e il dolore, le tribolazioni e le nevrosi, le speranze e le bontà che il nome di San Francesco farà sue lungo le strade di Brooklyn. Solo così, forse, avrà avuto un senso che quel testo manoscritto e miniato, così bello a vedersi, del “Cantico di Frate Sole” sia stato per un paio di mesi fra gente in cerca di un Santo, lontano da Assisi, dove nemmeno il suo autore, ormai cieco, ottocento anni fa ha potuto vederlo dopo averlo dettato e ornato di un principio di canto, al sole di San Damiano.

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