PRONTO SOCCORSO. NOSTRA SIGNORA DEI CODICI

NOSTRADAMUS / di Leo Polda / Qualche anno fa, mentre aspettavo di andare in ortopedia per una visita di controllo, l’ingresso del Santa Maria della Misericordia, allora Silvestrini, fu attraversato da una sedia a rotelle con sopra un personaggio troppo noto per non attrarre d’istinto l’attenzione su di sé. Paolo Villaggio, che girava i “Carabinieri” a Città della Pieve, si portò
“Il Messaggero” sul volto e in un secondo sparì lungo i corridoi dell’ospedale di Perugia, spinto vigorosamente da un infermiere. L’episodio mi è tornato alla mente stamattina mentre, arrivato per tempo al Pronto soccorso con l’intenzione di verificare da me la reale situazione di un giorno di quotidiano surmenage del nosocomio perugino, mi chiedevo se ognuno di noi, andando lì per le esigenze più diverse, non dovesse sentirsi, inevitabilmente, un po’ quel Fantozzi al quale Villaggio ha prestato così bene la sua maschera di attore.

Fantozzi ė, dunque, quell’anziano in crisi pressoria, quel bambino che perde sangue dal naso, quell’uomo febbricitante
disteso su una barella, quel ragazzo di colore che dovrebbe avere una spalla lussata, quella giovane donna incinta che telefona al marito, quel ciclista con
escoriazioni sulla coscia destra, quella suora dalla caviglia gonfia che cerca di rincuorare chi va e chi viene? Sì, ognuno di noi, mescolato a quella folla di sofferenze in attesa di un rimedio, di un chiarimento, di uno smistamento, di un ricovero o di una dimissione, si sente una maschera tragicomica perché se, da un certo punto di vista, il peggio, la manifestazione della tragedia, è passato, l’incidente c’è stato, lo sbalzo di pressione si è fermato, l’epitassi è molto meno copiosa, il meglio, la risoluzione del caso, deve ancora venire e questo stato crea lo scioglimento momentaneo della tensione in commedia, il rinascere di qualche speranza, l’umano cercare negli altri la condivisone dei propri dolori. I più loquaci, stamattina, cercavano addirittura di parlare con gli infermieri, con qualche giovane medico, con chiunque, dentro a un camice, avesse la facoltà di attraversare quella soglia dell’accesso al “pronto
soccorso” delimitata per tutti, familiari e ccompagnatori compresi, da un ferrea porta di riservatezza.
Ho trovato che questo modo di aiutarsi reciprocamente ha una sua decenza, che però non può essere attribuita all’organizzazione del lavoro di quell’astanteria. Lo starsi accanto, ognuno col suo caso pietoso, è una prerogativa che compete ai singoli in quanto tali. Compete al paziente, compete al medico e al personale paramedico, ma solo ed esclusivamente in quanto frutto della personalità di ognuno, dello stato di fastidio, di tensione e di nevrosi, di benevolenza, di serenità e di comprensione che caratterizza ognuno di noi in una mattina di normale afflusso di pazienti al Pronto soccorso.
C’è chi è arrivato con i propri mezzi, c’è chi viene portato dall’ambulanza, c’è chi fa più volte il gesto di andarsene via, c’è chi si sente male quando
arriva qualche caso davvero un po’ più serio degli altri. C’è chi accetta di buon grado il codice che gli viene attribuito, c’è chi lo ritiene sottostimato, c’è chi, dopo avere avuto il coraggio di arrivare fin là, si sente comodo anche così, in questa situazione di snervante attesa che gli allunga il momento del verdetto.
Il personale sanitario, oltre a prenderti in cura con competenza, è però anche capace di sfruttare tutte le indecisioni, le titubanze, le contraddizioni di
chi si presenta al Pronto soccorso. Dev’essere per questo che attua particolari strategie di difesa di fronte alla marea che ogni mattina, come oggi, si riversa in questo Limbo dell’ospedale di Perugia. E fin qui – anche se di volta in volta, quando è il nostro turno, siamo non proprio clementi con gli operatori sanitari – ci può stare che medici e infermieri, per fare al meglio il loro lavoro, se la cavino con il cavillo burocratico, con la risposta evasiva, con una certa durezza che scoraggia.
Non sono queste le pecche del modo di funzionare di questa struttura. Ce ne sono altre, che in tutta franchezza non mi sento di addebitare a questi forzati
dell’accoglienza e della carità cristiana che agiscono qui, al Pronto soccorso. Sono, obiettivamente, troppo lunghi i tempi di attesa, è troppo farraginosa la
procedura di soluzione dei casi banali, estremamente rischiosa la permanenza al Pronto soccorso, in condizioni di precarietà, di pazienti visibilmente sofferenti; sicuramente da ingorgo autostradale è, infine, la situazione che si presenta, in condizioni di normalità, agli occhi di chi, turbato o meno da una patologia, arriva agli sportelli di questo “fronte”. Ripeto, però, per non
generare equivoci, che tutto ciò non sembra derivare da un cattivo funzionamento del filtro del Pronto soccorso, ma, con maggiori probabilità, è la conseguenza dell’ingolfamento del motore interno, dalla situazione in cui versano, per sovraffollamento, i reparti del Santa Maria, verso i quali, pur essendo necessario, non si riesce a convergere dal Pronto soccorso che con
pesanti ritardi e, quando va bene, adattandosi a soluzioni di fortuna. Da qui, però, tutto questo non si vede, è solo nei racconti di chi si è dovuto
trattenere in ospedale e avrà un ricordo sempre più lontano del passaggio per il Pronto soccorso. Chi, invece, ha ricevuto cure sufficienti e adeguate proprio qui, è solito tornarsene a casa con un pensiero verso una non meglio precisata “Nostra signora dei codici”, alla quale ci si rivolge perché illumini la mente degli operatori sanitari nel momento di associare al tuo stato il
colore del codice appropriato.

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