BASSETTI INTERPRETE DELLO SPIRITO DI FRANCESCO

Luciano Moretti/Quando, nel 1975, era ancora vescovo di Città di Castello e di Gubbio, mons. Cesare Pagani inviò ai suoi fedeli una lettera pastorale di forte impatto sociale e politico, intitolata Noi cristiani e la “questione comunista”. Si trattava del confronto più diretto che si potesse immaginare ed era, di fatto, una sorta di “privilegiata sfida per i tempi che ci attendono”, per usare le parole del vescovo, messa in atto a poco più di un solo decennio di distanza dal Concilio Ecumenico Vaticano Secondo.
Gioverà ricordare, per far risaltare ancora di più la rapidità dei processi innescatisi, che appena due decenni prima della pastorale di Pagani il vescovo di Perugia, monsignor Pietro Parente, entrava nel 1955 nel suo magistero con questi toni: “La verità è tutta nelle mani della Chiesa, nel sacro deposito della dottrina della fede, che Gesù Cristo le ha affidato. Questo sacro deposito io porto a voi in nome di Dio. Lanceremo la crociata dell’istruzione religiosa: bisogna credere docilmente ma bisogna rendersi conto della propria fede, approfondirne la verità con la riflessione, con lo studio, specialmente in un clima di intellettualità come quello di Perugia”.
Il lungo ponte che attraversa la comunità e la diocesi perugina dall’apostolato di mons. Parente a quello di Cesare Pagani è sorretto, come ha ben ricostruito l’allora Don Mario Ceccobelli, oggi vescovo di Gubbio, dalle due figure di Raffaele Baratta e di Ferdinando Lambruschini, in un clima quasi di anticipazione dell’applicazione delle novità conciliari: “La nostra Chiesa perugina” – scrive Don Ceccobelli – “non ha vissuto il Concilio da impreparata, anzi posso dire che è stata all’avanguardia, sia dal punto di vista della conoscenza delle novità del Concilio che per una certa vivacità di iniziative”. E si citano elementi come la pastorale sull’apostolato dei laici – scritta da mons. Baratta nel 1962, “prima ancora che il Concilio cominciasse a far conoscere le nuove indicazioni” – e come la pastorale del vescovo per la Quaresima del ’66 in cui parlava proprio della Chiesa conciliare.
Si arriva così al 1968. La pastorale di mons. Cesare Pagani sulla “questione comunista” comincia probabilmente a maturare. A Perugia, intanto, si registra il cambio dell’arcivescovo: a mons. Baratta, che con dispiacere si ritira per sopraggiunti limiti di età, succede Ferdinando Lambruschini. Il presule gode della piena fiducia di Paolo VI, che gli affida la “costruzione” della Chiesa conciliare a Perugia venendone assolutamente ripagato. Scrive ancora Don Ceccobelli: “Fino allora il vescovo viveva nel palazzo e arrivare a lui era una era un po’ un’avventura. Con Lambruschini il vescovo esce dal palazzo e va nella piazza, il vescovo diventa accessibile, diventa compagno di passeggiata per il corso, con lui è possibile instaurare rapporti familiari; si dissolve quella patina di mistero che avvolgeva il palazzo vescovile”.
Negli anni Settanta – mentre Lambruschini realizza, a Perugia, questa “svolta nello stile” nel modo di fare il vescovo – a Città di Castello e a Gubbio opera mons. Pagani, prendendo quelle posizioni, così coraggiose nel dibattito anche politico, che gli danno subito la statura regionale corrispondente alla carica di Presidente, dal 1976, della Conferenza Episcopale Umbra. La sua lettera sulla “questione comunista” è un dialogo faccia a faccia con le istituzioni e i due partiti, il Pci e la Dc, che in forme diverse esercitano la sostanza del potere in Umbria. È, in particolare, un fortissimo richiamo ai “cristiani” perché esercitino “il diritto-dovere di costruire instancabilmente un partito serio, veramente democratico, bene organizzato, adeguato ai suoi compiti civili” e dunque si ribellino, testualmente, “agli opportunismi, ai verticismi, alle faziosità, alle posizioni di privilegio che intristiscono la vita partitica”. Ma suona anche come una messa in guardia radicale rispetto al Partito comunista, ancora materialista, ateo e leninista, un monolite sotto tutti gli aspetti: organizzativo culturale e pedagogico strutturale, che vede il mondo rigidamente a due colori, il bianco e nero, da una parte soltanto il bene e dall’alta soltanto il male.
Sarà, la lettera di mons. Pagani, arcivescovo poi a Perugia e vescovo di Città della Pieve dal 1981 al 1988, una scossa destinata a prolungarsi anche oltre la fine dei partiti della prima repubblica, allorché sarà ripresa, con toni adeguati al mutato scenario culturale e spirituale, dai successori nel magistero della Chiesa perugina. Mons. Ennio Antonelli, nel 1995, parlerà apertamente di “diaspora politica” non solo dei cristiani, ma di tutti il mondo secolarizzato e opporrà ad essa il valore della fede, che “non è legata a nessuna cultura in modo esclusivo, ma entra in comune con tutte le culture”. Succedendogli, nel 1996, mons. Giuseppe Chiaretti si rivolgerà con franchezza estrema alla società politica: “In tempi in cui si guarda con diffidenza, o addirittura si demonizza, chiunque gestisca un potere per il servizio della collettività, mi piace dir loro una parola di incoraggiamento, invitandoli a lavorare con entusiasmo, competenza e generosità a favore del bene comune, che è bene preferenziale verso tutti coloro che tirano avanti a fatica nella vita”.
Compiuto il suo lungo magistero fino al 2009, Chiaretti, con questa immagine illuminante, sembra passare il testimone a mons. Gualtiero Bassetti, più di chiunque altro capace, per formazione e per ispirazione, di recepirne lo stimolo e a proseguirne l’efficacia.
La Chiesa perugino-pievese ha oggi al suo vertice un “ministro” saggio e umile, coraggioso e delicato nei modi, un uomo capace di entrare in punta di piedi nelle case della gente e nelle dimore delle istituzioni umbre, un pastore che agisce con la forza di persuasione di parole e di gesti del tutto trasversali alle fedi e alle culture. Tornano in lui i moniti di mons. Pagani a non farsi vincere dal lamento, dall’avvilimento e dalla fuga nel privato. E tornano con una dolcezza e un vigore inediti, frutto delle peculiarità culturali dell’uomo nato a Marradi e maturato in Toscana, ma anche dell’accelerazione che la storia della Chiesa ha conosciuto nell’ultimo anno, passando dal pontificato di Benedetto XVI a quello di Francesco.
Per mons. Bassetti, per il cardinale Bassetti, non lasciarsi vincere dall’avvilimento significa sempre anteporre il dolore e lo smarrimento altrui alle proprie certezze, esaltarsi nel cercare insieme una soluzione nuova a un problema antico, mettersi incondizionatamente dalla parte dell’interlocutore, umile o potente che sia. Raschiata via la “crosta” dei partiti, che tanto preoccupava mons. Pagani, è venuta alla luce, molto modernamente, la carne viva della società, che bisogna per il presule Bassetti, curare e benedire. Gesti francescani, gesti di umiltà rinnovata, gesti che unificano, capitale o non capitale, Perugia e Assisi nel segno del santo e del pontefice che ne ha preso il nome.
Così si compie, nella Chiesa perugino-pievese, l’ultima, più autentica crescita e la chiamata di mons. Bassetti nel collegio cardinalizio sa tanto, per le doti umane dell’arcivescovo e del Papa, di potente richiamo allo spirito con cui Francesco d’Assisi, un giorno lontano nel XIII secolo, ha chiamato a sé i primi compagni della sua avventura bella e generosa. (pubblicato su Messaggero Umbria del 9.3.14)

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