Capitale 2019. C’è un messaggio più convincente degli altri?

di Maurizio Terzetti

Dopo l’illustrazione – che ho svolto nel mio articolo del 6 agosto – dei punti fondamentali tratti dai Progetti con i quali le sei città finaliste della “Capitale 2019” si presentano alla valutazione finale, è ora il momento di proporre al lettore alcune riflessioni sugli elementi di comparazione emersi dalla ricerca. La domanda sottesa è sempre quella: al di là della designazione, ci sarà, fra i sei, un messaggio in grado di centrare più degli altri gli obiettivi che il Bando di candidatura si porta dentro? Non mi interessa, insomma, pronosticare la città vincitrice e, fatti salvi gli ovvi auguri alle chances di Perugia, ciò che solo mi preme di far capire è come si possa guardare, in maniera distante dai contendenti ma partecipe dei loro sforzi ideativi, al patrimonio culturale del quale già, con i sei progetti finalisti, disponiamo.

Nel 1986 è stata Firenze, allora col titolo di “Città europea”, ad aggiudicarsi il primato culturale. Si era alla seconda edizione e tutto era partito, l’anno prima, da Atene. Dal 2000, poi, si è parlato esplicitamente di “Capitale europea della cultura” ed è stata subito Bologna, insieme ad un coro di città rappresentative di varie nazioni contemporaneamente (Islanda, Norvegia, Finlandia, Belgio, Repubblica Ceca, Polonia, Spagna e Francia). Col meccanismo di designazione più affinato – il tandem attuale – dieci anni fa Genova ha condiviso il titolo con Lilla. Dopo che, nel 2019, avremo condiviso la designazione con la Bulgaria, l’Europa, che quando vuole guarda in avanti, ci ha riservato la prossima volata per il titolo nel 2033, questa volta con i Paesi Bassi.
Tenendo fermo questo quadro, il 2019 sarà sicuramente un anno di svolta, perché finora mai l’Italia è arrivata a rendere protagonista della cultura europea una sua città che non fosse, coi termini di oggi, una città metropolitana. Tutto è cambiato nell’orientamento dell’Unione Europea e oggi si punta a quella valorizzazione di città medie che agli inizi era impensabile. Il segnale è positivo, perché rivela la volontà dell’Europa di radicarsi nei territori del suo vasto impero più di quanto possano permettere le grandi realtà metropolitane, le quali, insieme a tanti lati negativi, godono di alti privilegi storico-culturali che non è giusto né produttivo continuare a premiare.
Così è il turno di questi sei grandi capoluoghi – si sarebbe detto fino all’altroieri – di provincia (solo Cagliari e Perugia lo sono anche di regione). E, così, hanno fatto bene quelle città che più delle altre hanno battuto su questo tasto, rimandando nei loro messaggi all’Unione Europea un segnale di ritorno teso a far capire che tipo di sponda sul Mediterraneo possa rappresentare la scelta a loro favore. Lecce lo ha fatto in maniera esplicita e barocca: “trasformare il ‘mare nostro’ nel faro e nel cuore pulsante dell’Unione”; Ravenna con la sobrietà e la poesia: “Ravenna e la Romagna rappresentano un’Europa in miniatura e si configurano come un ipotetico laboratorio per le politiche comunitarie”. Solo la terza città marittima (considerando tale anche Lecce) – Cagliari – non ha mandato un segnale di ritorno di questo tenore.
Le tre città dell’interno – Matera, Perugia e Siena – hanno puntato, invece, su un altro tipo di risposta all’Unione. Con sfumature e tonalità diverse, specialmente Matera e Perugia hanno fatto risaltare, con assoluta onestà d’intenti, che la designazione a loro favore rappresenterebbe un intervento nel cuore stesso dell’Italia, un cuore forte e resistente, ma fortemente insidiato, nel caso di Matera, da un antico pregiudizio di degrado e di miseria (i “Sassi” sono stati a lungo considerati una “vergogna nazionale”), nel caso di Perugia dalla perdita di “attrattività e competitività, come gran parte delle città medie che subiscono gli svantaggi oggettivi e il gap di creatività con le grandi città metropolitane e cosmopolite”. Solo la città di Siena ha inspiegabilmente puntato tutto sulla intangibilità del suo patrimonio, come a dire che la moneta culturale, ereditata dai secoli del Medioevo, è tuttora spendibile e cambiabile senza molti auspici di interculturalità o ammissioni di punti critici.
Sul piano stilistico vero e proprio, due città hanno scelto metafore poetiche per caratterizzare i loro messaggi (Cagliari e Ravenna), una lo slogan pubblicitario (Lecce), due ancora il piano denotativo (Matera e Perugia), una – Siena – il discorso della semplice autoreferenzialità.
La scelta poetica di Cagliari è severa e austera (il tessuto, l’intreccio trasversale di trama e ordito), quella di Ravenna (le tessere del mosaico) brillante e spigliata: i rispettivi retroterra culturali si palesano con grande coerenza.
Con “Oltre il barocco”, Lecce esprime senz’altro il bisogno di utilizzare la sua carta vincente senza ricondurre al suo potere l’apertura delle porte dell’Unione Europea. La città, inoltre, utilizza lo slogan per contemperare le audacie linguistiche (Eutopia) che possono essere a rischio di comprensibilità.
Se il piano “denotativo” indica segni linguistici non portatori di valori attributivi (ad esempio, metafore), ma semplici veicoli del rapporto, già forte del suo, fra parole e oggetti, immagini e storie, Matera e Perugia hanno fatto una scommessa audace nello stare, programmaticamente, su questo piano, per raccontarsi senza lasciarsi prendere la mano dalle rispettive culture, profonde antropologicamente e immense sul piano storico-artistico, oltre che, nel caso di Perugia, spirituale.
Un azzardo davvero grande sembra averlo fatto Siena, allorché si è stretta, pur con tutte le aperture convenienti a una “Capitale europea della cultura”, nell’intangibilità del suo percorso che, si afferma, ha già posto nei secoli molte pietre miliari di “cultura civica europea”. A quelle, si certifica, corrisponde la tensione culturale senese di oggi, una sorta di dantesco “Primo mobile” del quale l’Europa non potrà fare a meno.
Qui mi fermo. Ognuno di questi messaggi, per come è coniato e comunicato, ha la possibilità di essere convincente una volta che il vaglio dei giudici ne avrà commisurato il valore significante con i significati (le azioni e le attività) messi a progetto.
Mi pare, in ogni caso, molto probabile che la sfida finale si giocherà a livello di quella coerenza che ogni città avrà saputo conseguire fra la vivacità culturale del proprio territorio e la caratura del messaggio. In questo percorso, fisiologicamente, ognuna di esse non può non avere lasciato dei punti deboli, critici, capaci di incrinare il bel vaso manufatto. Il tessuto di Cagliari, ad esempio, non sarà una coperta un po’ troppo a maglie larghe? Il mosaico di Ravenna, invece, non risplende di qualche granello di sabbia di troppo? Il barocco, a Lecce, non rimane dominante, con quell’Eutopia, nonostante la volontà di oltrepassarlo? Matera, per descriversi troppo limpidamente, non rischia di allontanarsi dall’immagine letteraria che ne hanno saputo fare cineasti e viaggiatori? Perugia, oltre ad avere parlato per tutta l’Umbria senza riscontri comunali troppo estesi, non avrà rinunciato eccessivamente a quella poesia che connota il suo paesaggio e illumina tutti i luoghi francescani? Siena non avrà puntato su valori civici di declinazione della cultura che, in genere, sono appannaggio di una cultura tradizionale, di accademie sorpassate? Miei dubbi, per carità, solo miei dubbi.

 

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