Le elezioni di Midterm in America

di Pierluigi Castellani

La grande democrazia americana ha dato ancora una volta prova della sua saggezza. Con le elezioni di martedì scorso, le elezioni per il rinnovo della Camera dei Rappresentanti e di 1/3 del Senato,  nonostante i toni trionfalistici di Trump, il potere  del presidente non è più assoluto, perché con la maggioranza della Camera ai democratici, il Presidente, pur essendosi rafforzata la maggioranza dei repubblicani al Senato, dovrà per forza trattare alcuni provvedimenti con il Congresso e non potrà più fare il bello ed il cattivo tempo, ad esempio, in politica internazionale. Forse ora non è più certa la ratifica parlamentare della denuncia dei trattati internazionali fatta unilateralmente da Trump come l’accordo di Parigi sul clima e il trattato sul nucleare con l’Iran. Quando si richiama la necessità dei pesi e contrappesi in democrazia questa delle elezioni di midterm americane ne è un riprova. Infatti negli USA, pur con una costituzione che disegna una repubblica presidenziale, essendo sganciata la elezione del Presidente da quella del Congresso può verificarsi che gli elettori americani nella loro saggezza eleggano un Congresso, almeno in una dei suoi rami, in cui la maggioranza non appartiene allo stesso partito del Presidente. Ciò ovviamente non per eleggere comunque Presidenti azzoppati ( ora si parla di Trump come anitra zoppa), ma per temperare il suo potere, che altrimenti sarebbe assoluto e quindi esposto a spinte di tipo autoritario.

Ecco perché in Italia possiamo vivere momenti rischiosi se una maggioranza di governo si rivela insofferente di tutte le autorità indipendenti e di garanzia, previste dalla nostra Costituzione, e  fa un uso smodato del cosiddetto spoils system come è anche recentemente avvenuto con il licenziamento del prof. Roberto Battiston dalla presidenza dell’Agenzia Spaziale Italiana perché non allineato politicamente con l’attuale governo. A nulla sono valsi i suoi indiscussi titoli accademici e il generale apprezzamento  per la sua opera, perché forse ha prevalso la considerazione dell’essere coniugato con Maria Prodi, nipote di Romano Prodi, ed a lungo assessore regionale in Umbria. Ma tornando alle elezioni americane c’è da constatare che i democratici, pur avanzando nei consensi, non sono riusciti ad intercettare quella onda lunga che li favoriva nei sondaggi. Trump ha indubbiamente recuperato, spendendosi in campagna elettorale e soffiando  sulla paura dei cittadini per l’immigrazione ed agitando come uno spauracchio l’avanzare di quella colonna di poveri cristi partita dall’Honduras e che, marciando attraverso il Messico , vuole arrivare al confine con gli USA per vivere, anche loro, il  sogno americano. Trump non ha detto nulla sull’economia, che negli USA sta andando meglio che negli altri paesi; la sua è stata una campagna elettorale monocorde ( vi ricorda qualcuno nel nostro paese?) basata solo sull’immigrazione alimentando paure anche ingiustificate perché, a detta di molti, pochissimi di quella colonna di poveri, marciando a piedi, potranno raggiungere la loro meta. Dall’altra c’è anche da dire che i democratici americani non hanno ancora definito una loro chiara identità nonostante il successo di alcuni giovani leader della sinistra liberal, quella per intenderci di Bernie Sanders, che hanno conquistato un seggio alla Camera dei Rappresentanti. Yascha Mounk, politologo di Harvard, sul Corriere della Sera del 7 novembre,  spiega  il mancato pieno successo dei democratici distinguendo  al loro interno due gruppi, molto diversi, “ il  primo di attivisti ricchi, bianchi, ben istruiti, radicali; l’altro di giovani donne di colore che vogliono un salario migliore, l’assicurazione medica, ma a cui non interessano il socialismo né i dibattiti culturali su Twitter. La sinistra vincerà se saprà mobilitare tutti con lo stesso messaggio, basato sulle somiglianze piuttosto che sulle differenze”. Forse questa è un’analisi che potrebbe andar bene anche per l’Italia.

 

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