Voglia di Pd, ma quale modello di partito?

di Pierluigi Castellani

Sta tornando il dibattito intorno ai partiti ed in particolare intorno al Partito Democratico. E’ recente un’intervista dell’ex segretario Pierluigi Bersani, che chiede la revisione dello statuto del PD ed in particolare l’introduzione della differenziazione tra segretario del partito e candidato premier e di conseguenza l’elezione del segretario solo da parte degli iscritti. Insomma un sostanziale abbandono del metodo delle primarie che , non può certo essere dimenticato, è la caratteristica essenziale con cui è nato lo stesso PD. Si vorrebbe ritornare quindi ad un modello di partito, che ha avuto origine nell’ottocento, e che si è realizzato nella seconda metà del novecento. Un partito ben strutturato, con chiare gerarchie, con ferrea disciplina interna, con una organizzazione capillare, che venisse legittimato solo dagli iscritti e quindi dai soli militanti. Un partito siffatto lo abbiamo ben conosciuto perché è parte della nostra storia, una storia che ci ricorda anche che questo modello ha finito per imporsi al di sopra dello stato e delle istituzioni con ferree logiche interne, che hanno motivato un saggio critico del compianto Pietro Scoppola denominato proprio “ La repubblica dei partiti”. Credo che questo modello di partito abbia esaurito il proprio tempo con la fine del secolo scorso, infatti un partito forte, che finisce inevitabilmente per sovrapporsi alle istituzioni, ha prodotto una degenerazione della democrazia, quella appunto chiamata partitocrazia, che credo nessuno ora intenda riesumare. E’ certo però che i partiti sono stati essenziali per far crescere e stabilizzare la nostra democrazia per un lungo lasso di tempo, almeno fino a quando hanno interpretato al meglio l’art. 49 della nostra costituzione quando dice che “ tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Poi c’è stata tangentopoli, gli scandali e sappiamo come è andata a finire. E’ proprio per superare questa degenerazione che è nato il desiderio di interpretare il modello di partito in modo diverso, un partito aperto alla società, non di funzionari, ma di militanti volontari e con dirigenti che trovassero la loro legittimazione non soltanto nel chiuso della base degli iscritti ma anche con l’apporto degli elettori. Il PD è nato in questo modo. Si potrà sostenere che l’identificazione della figura del segretario con il premier o il candidato premier porta ad una prevalenza del governo sul partito e quindi ad una sua mortificazione. Credo che non sia così. Basti pensare al rifiuto dei partiti tradizionali che tutt’ora fa breccia nell’opinione pubblica ed al rischio che il partito tradizionale rappresenta per chi ha come obbiettivo non già il partito in sé ma il governo del paese. Il partito chiesa, il partito tutto ha portato a quella che Paolo Mancini ha chiamato la “ridondanza” dei partiti e che già nel lontano 1943 fece dire a Simone Weil che “ è inevitabile che il partito diventi fine a stesso. Già in questo fatto c’è idolatria, poiché solo Dio è legittimamente un fine in sé”. Per questo e per tanti altri motivi è impensabile un ritorno al vecchio modello di partito, per questo è nato il PD, il cui modello è l’unica alternativa al ”movimento”, come si sono voluti chiamare i 5Stelle, che aborrono di essere visti come un partito. Nella società di oggi e con le difficoltà rappresentata dalla sua complessità è importante che ci sia un partito che cerchi la propria legittimazione al di fuori del semplice recinto degli iscritti. C’è infatti il rischio che la società rimanga fuori da quel recinto rendendo insanabile la frattura tra il partito e gli elettori. Per questo credo che ancora ci sia voglia di PD, di un PD che rimanga fedele ai principi che lo hanno ispirato e motivato.

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