DIS…CORSIVO. LE CONSERVAZIONI DI MIELI

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / L’anno scorso, al Festival di Spoleto, hanno riscosso un grande successo “Le conversazioni di Paolo Mieli”. Il gradimento degli appuntamenti è stato tale che, per l’edizione di quest’anno, si è pensato bene di andare oltre, aumentando il numero degli eventi e nobilitando l’accoglienza ospitando il pubblico nel Salone dei Vescovi del Museo Diocesano.

Per la salute del Festival si tratta di un bel segnale, non c’è che dire. Per la celebrazione della creatività – altro fiore all’occhiello dei Due Mondi – è, invece, il segno di un tono monocorde e sonnacchioso nel quale non riesco a capire quale pubblico si possa rispecchiare con soddisfazione dell’anima, oltre che con appagamento della curiosità intellettuale verso il bel mondo dello spettacolo e della comunicazione che passerà per Spoleto nelle prossime tre settimane.
Paolo Mieli, in realtà, non conversa. Conserva tutto ciò che nel linguaggio può essere fonte di esplosione dialogica e lo raffredda in un tondo aplomb fisico e mentale che, con spire appena premute intorno alla conversazione, conserva il sangue freddo della civiltà del discorso.
Meglio, molto meglio, che so, del conversare greve e unto di tanti talk show che vanno per la maggiore e ai quali, di tanto in tanto, lo stesso Mieli partecipa. Mantenere il bon ton alla Mieli è pregio invidiabile da qualunque comunicatore pubblico. Tutelare le ragioni di tutti è principio che rassicura e rasserena. Difendere il discorso pubblico dalla protervia salviniana, ad esempio, e dalle intemperanze parlamentari contro le fiducie poste dal governo è merito di un giornalismo come quello di Mieli.
Ma a quale tempo appartiene il giornalismo di Mieli, a quale epoca passata, a quale comunicazione in divenire? A molti pare che non abbia un tempo, un modello, un prototipo, un campione, un ascendente e che sia nato dalla vertigine montanelliana riformata in equilibrio terapeutico dal lettino soporifero di Bruno Vespa.
A me non pare niente di tutto ciò. Mieli assomiglia, in fondo, a un ricercatore di storia locale, di quelli che non hanno impennate ma fanno un lavoro immenso di cucitura delle fonti. A differenza degli eruditi locali, però, Mieli ha il dono, tipico dei grandi talenti giornalistici, di non entrare nel discorso con gli altri con lunghi, attorcigliati pistolottti, ma di bruciare il suo interlocutore dentro fiammelle caustiche sempre azzeccate e accese a tempo, prima che l’altro possa approfittare dello stato semi sonnacchioso di Mieli. Ecco, Mieli ha la capacità di ipnotizzare benevolmente la persona che ha scelto di parlare con lui, a tu per tu con quel volto da impenetrabile buddista e con quel cerimoniale verbale da inconsolabile vedovo dell’allegria italiana.
È italiano quanto basta, Paolo Mieli, si ferma, cioè, dove gli italiani diventano anche dei gioiosi Pulcinella. Lì non li segue, non ci segue, ma non ci perde di vista, non ci abbandona. Il suo sguardo fisso sulla meditazione laica della fine della buona cultura italiana ne fa un conservatore anche del nostro sorriso, libero e sguaiato, di fronte ai potenti. E vince ancora, perché nessun altro conduttore di salotti ha la chiave – neppure alla Crozza – per farci esprimere quel sotterraneo buonumore mediterraneo che i nostri cromosomi, intanto, traghettano verso la società italiana dei prossimi tempi.

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