DIS…CORSIVO. “SCRIVO MALE”: E FECE UN CAPOLAVORO

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / È di qualche giorno fa la notizia che la macchina tipografica usata per stampare l’edizione “quarantana” dei Promessi Sposi – la prima, cioè, del 1840 – è stata identificata nella “Amos Dell’Orto” modello stanhope giacente a Foligno nella tipografia di Enrico e Nicola Pellegrini.
L’importanza e la certezza di questo rinvenimento per un verso accreditano i meriti della ricerca erudita locale, che si deve allo storico Luca Radi, per un altro, ancora, non possono che far nascere alcune riflessioni sul ruolo di deposito culturale che l’Umbria sembra incarnare come nessun’altra regione sa fare.

Se, infatti, è emozionante seguire le peripezie del prezioso cimelio dalla Milano della prima metà dell'Ottocento alla Foligno di una terra che, appena ieri, è andata vicina d'un soffio alla conquista del ruolo di Capitale Europea della Cultura per il 2019, come si fa, di fronte alla reliquia manzoniana, a non sentirsi, in ogni caso, periferia di un reame culturale che viene in Umbria, da Roma come da Milano, per affermare qui da noi una marcata superiorità intellettuale?
Molto nobilmente, a Foligno intendono adoperarsi per non lasciare perire di ruggine la macchina tipografica accarezzata da don Lisander e affidano alla stampa (vedi l'articolo di Roberto Conticelli) un messaggio, tutto centrato sul genius loci folignate in materia di stampa, che così si conclude: “Sarebbe un’altra occasione, l’ennesima, per rilanciare l’immagine dell’Umbria come terra in felice controtendenza: altrove puntano tutto sulla tecnologia sfrenata, qui invece lo sguardo è anche volto al passato, al ritorno delle antiche botteghe, al gusto delle sapienti riscoperte artigianali. E il vecchio torchio diventa una favola tutta da raccontare, dai fasti letterari di Alessandro Manzoni fino alla genuinità di una vecchia ma sempre affascinante tipografia artigianale”.
Tutto valido e vero, sottoscrivibile in pieno. Ma che cosa dovremmo farcene di quello “sguardo rivolto al passato”, di quel “ritorno alle antiche botteghe” e di quelle “sapienti riscoperte artigianali” se non c'è un progetto di utilizzazione, in termini di contenuti e di mercato, degli strumenti di stampa che abbiamo la fortuna, non solo a Foligno, di avere in grande copia da noi?
Macchine tipografiche come quella che ha sfornato I Promessi Sposi sono destinate a un futuro di inevitabile musealizzazione, non si vede come possano rientrare in un ciclo virtuoso di produzione alternativa ai mezzi di stampa dei quali si dispone oggi. Ciò che, semmai, possiamo e, per tanti versi, dobbiamo recuperare è lo spirito di servizio che certe tipografie hanno avuto, nella loro storia ultracentenaria, rispetto al mondo culturale circostante.
Cogliere al volo quello spirito, invogliare alcuni scrittori a pubblicare con l'assistenza e con i ritmi delle vecchie tipografie, con le incertezze e i rischi di antichi procedimenti a caldo: questo, forse, sarebbe, muoversi nel solco di una tradizione guardando, nello stesso tempo, in avanti, verso il mercato editoriale globale, in controtendenza verso il librificio continuo che anche da noi ha preso a occupare la scena e a inflazionare la produzione.
Quale migliore occasione dell'esempio della macchina che ha stampato la “quarantana” manzoniana potrebbe servire a far nascere idee in proposito? D'altra parte, se non siamo noi, le nostre generazioni, ad invertire la tendenza alla messa in un angolo di strumenti così gloriosi, nessun altro – ne sono certo – lo farà mai più dopo di noi.
La storia della “Amos Dell'Orto” è fin troppo eloquente: dopo avere stampato il monumento maggiore della nostra letteratura moderna, essa si era ridotta a “tirare” partecipazioni di nozze. Don Lisander ci avrebbe riso su, sogghignando: per lui non sarebbe stata che l'ennesima conferma che “quel matrimonio” non si doveva fare, perché la storia eroica è il fidanzamento, la dura prosa di tutti i giorni è il matrimonio.
Ma, sberleffi del genio manzoniano a parte, bisognerebbe ripartire, se non proprio dal glorioso cimelio almeno da qualche macchina sua figlia, per ricreare davvero in Umbria, forse proprio a Foligno, un laboratorio editoriale e tipografico utile a rendere meno banale la produzione letteraria, non solo regionale, ma nazionale.
L'idea potrebbe essere quella di creare un'impresa culturale, che formi un circolo letterario che stampi con le vecchie tecniche non più di uno o due titoli all'anno, ma super selezionati da un lavoro di lettura fra i soci di implacabile portata quanto a ricerca della qualità e della perfezione rispetto alle esigenze di lettura della società italiana di oggi. Insomma, un piccolo laboratorio manzoniano, che non avrebbe sfigurato tra i progetti per Perugia Capitale. Manzoni, del resto, prima di arrivare a pubblicare la “quarantana”, di se stesso e del suo lavoro precedente, il Fermo e Lucia, diceva: “Scrivo male”. Se molti di noi dicessero la stessa cosa, domani probabilmente avremmo dei capolavori, almeno di consapevole umiltà, e l'Umbria potrebbe non trovarsi più nelle condizioni di essere colonizzata culturalmente, Capitale o non Capitale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.