LA FRAGILE BELLEZZA

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / “Lungi dal proprio ramo, / povera foglia frale, / dove vai tu? – Dal faggio / là dov’io nacqui, / mi divise il vento”. Così, all’incirca duecento anni fa, Giacomo Leopardi “imitava” in traduzione il poeta francese Antoine-Vincent Arnault. “Frale”, in qualche modo fragile, sta per l’originale “desséchée”, con attenuazione dell’aridità di partenza ma senza ammorbidire il senso di essere gettati nel mondo come ramo secco della natura, messi da parte pur facendo parte di un grande universo. Il tono francescano con cui padre Mauro Gambetti, custode del Sacro Convento di Assisi, ha accolto i partecipanti alla due giorni de “La fragile bellezza.

Ambiente e arte fra umanesimo e scienza” ha riaperto in me il “paradigma delle reazioni umane di fronte alla fragile bellezza” di cui siamo fatti e dalla quale siamo circondati. Gambetti è partito dall’episodio evangelico della donna che, nell’imminenza della Passione, unge i piedi di Gesù, anticipando così la sua morte e la sua sepoltura. Tutti gli attori di quella storia, ha detto Gambetti, sono protagonisti di una reazione di umana fragilità di fronte alla bellezza di un unguento ben conservato nel suo vasetto: fragile è la donna peccatrice perché lo dissipa agli occhi dei più, fragili i discepoli di Gesù perché convinti che quel balsamo va conservato, fragile lo stesso Gesù perché entra nella spirale della fragilità per spiegarla senza sottrarsene, anzi indicandola come risorsa, come avvertimento di un tesoro da spendere in ogni momento della vita, anche di fronte alla morte, che per lui era ormai prossima. Gli “atteggiamenti esistenziali” che ognuno di noi assume comportandosi più o meno virtuosamente verso l’ambiente, la scienza, l’arte e il suo patrimonio sono in fin dei conti ciò in cui bisogna guardare, secondo il Padre Custode, per non disperarci come “povere foglie frali”: forse anche la pianta dalla quale ci siamo staccati, la divinità da cui proveniamo, è essa stessa un Dio della fragilità.

E mons. Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi, è partito proprio dall’episodio della trasfigurazione di Gesù per sottolineare come la bellezza dell’uomo sia non solo fragile, ma anche crocifissa. Nelle sue parole ho visto volteggiare i mulinelli di “foglie frali” del più acuto pessimismo, riprendere cuore, se non proprio vita, i punti di vista soggettivi e parziali sulla bellezza, avanzarsi l’avvicinamento di tante persone verso un orizzonte trasfigurato. Nel mondo della fragile bellezza, ha perorato il vescovo, siamo in realtà tutti in cammino per andare di bellezza in bellezza verso una bellezza nella quale possiamo riposare, forse ricongiunti – aggiungo io – a quella pianta dalla quale Leopardi ci ha visto distaccati e disseccati.

Emilia Chiancone, dell’Accademia delle Scienze, ha visto questo cammino come traccia dello “sviluppo sostenibile”, introducendo cioè nel discorso quel rapporto fra le generazioni in base al quale chi viene prima è tenuto a preoccuparsi non solo del proprio progresso, ma anche a non ledere le prospettive di avanzamento di coloro che vengono dopo. Intanto, ad esempio, non consumando già nel mese di agosto tute le risorse mondiali di un anno e dunque non indebolendo un sistema già di per sé fragile e caduco. Infine creando una conoscenza finalmente adeguata delle basi scientifiche su cui si basa il pianeta terra.

A mano a mano, il tono del convegno è così progredito verso una contestualizzazione sociale del tema di fondo della fragilità di tutto ciò che nel mondo ha le stimmate della bellezza, per dirla ancora in termini francescani. Francesco Giorgino ha individuato la tipicità del rapporto tra fragilità e bellezza, nel mondo contemporaneo, attraverso il riferimento al passaggio dalla “società affluente” degli anni Sessanta alla “società defluente” di oggi. Su questo spunto, il conduttore televisivo ha lasciato la parola a mons. Mario Toso, Segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace. L’umanesimo integrale, concreto, che si propone di realizzare obiettivi e non di farsi irretire in dispute teoriche – ha molto insistito il presule – è alle prese con la sperequazione energetica che sconvolge il mondo. La bellezza di intere regioni del mondo, con i loro abitanti, è fragile perché insidiata dall’accesso insufficiente e inuguale all’energia. Vivendo in tale stato di fragilità, il cammino verso la bellezza che quell’umanesimo potrebbe rigenerare e creare è ancora molto lungo: non solo nei Paesi delle periferie del mondo, ma anche nei Paesi industrializzati, ci sono tante e tante persone che non possono permettersi di acquistare l’energia elettrica. Mons. Toso ha esplicitamente rivolto un appello alla scienza perché contribuisca, con lo sviluppo tecnologico adeguato, tanto a progettare il futuro quanto a rimediare ai tanti guasti prodotti nel passato, mettendo così solide e non fragili radici al rapporto tra fede e scienza che mai come oggi è necessario sviluppare. La tecnica potrà anche non risolvere tutti i problemi, potrà anche, in alcuni casi, arrivare troppo tardi, ma intanto occorre che inneschi dei meccanismi di responsabilità dei singoli scienziati in grado di preservare e creare nuova bellezza dove il mondo è disperato. La scienza, ha concluso il vescovo, sarà assistita, a livello planetario, da una governance internazionale, da istituzioni internazionali nelle quali avverranno incontri multilaterali fra più Stati e sarà basata su una straordinaria opera di educazione alla responsabilità ecologica. Con lei camminerà la fede, richiamata a compiti ineludibili di evangelizzazione sociale.

Giuseppe Scarascia Mugnozza e Enrico Garaci hanno, ognuno per la loro competenza, approfondito sezioni determinanti del quadro tracciato da Mons. Toso: il primo parlando di “Società dell’informazione e protezione dell’ambiente”, il secondo dell’impatto negativo sulla salute determinato dalla rottura del fragile equilibrio tra uomo e natura.

La “foglia frale” ha ripreso a vorticare in presenza di interventi che, intercettando il rapporto tra l’ambiente e la storia, tra le foreste e le città, tra la salute e il clima lo hanno descritto, pur senza calcare la mano, a tinte preoccupanti: la bellezza è sì un sistema in equilibrio, ma tale equilibrio è così delicato che si rischia di precipitare dall’asse più spesso di quanto non si creda.

Questo ideale testimone teorico è stato passato, nel pomeriggio, a Ernesto Galli Della Loggia e a Andrea Carandini, che lo hanno applicato al “sistema Italia”, al “Bel Paese”, al debito di attività che le generazioni nate dopo la seconda guerra mondiale nei confronti della messa in valore e della gestione del patrimonio culturale italiano. Galli ha esordito ammettendo che “una certa Italia si è dileguata, non esiste più quell’impasto unico fatto di rovine e storia quale ce l’hanno dato i viaggiatori dal Settecento in poi”. Il processo di rifiuto del passato è cominciato col Risorgimento (Mazzini si batteva per la “Roma del popolo”, non certo più per quella dei Cesari), è stato lamentato da Leopardi (“Ma la gloria non vedo”), è proseguito nell’Italia unita che non ha mai amato il suo passato. Lo stesso Abate Stoppani, celebre per avere divulgato un’opera come “Il Bel Paese” (1876), non ha illustrato le ricchezze culturali della neonata Nazione, ma solo luoghi geograficamente significativi. Nel Novecento, la democrazia ha finito per accentuare molti tratti polemici verso il passato, facendo nascere un Paese senza Nazione e senza cultura dello Stato. Tale mancanza congenita di un vero “tratto conservatore” ha finito col dare gambe molto fragili al sistema di gestione delle memorie del passato, ridotte a patrimonio da musealizzare e pessimamente organizzate su scala locale, con qualche merito in più per l’accentramento di competenze a livello statale. A Galli ha fatto eco il Presidente del Fai, Carandini, che ha fortemente sostenuto la necessità di riprendere il dialogo con il passato, definito un “rapporto vivo fra noi viventi e quei morti che finiscono per incrementare un’economia”. Anche per Carandini il migliore modello di gestione del patrimonio può nascere dal rapporto diretto fra lo Stato e alcuni privati virtuosi come il Fai.

L’intervento che più ha estremizzato la posizione “frale” della foglia umana di fronte alla bellezza è stato quello conclusivo della prima giornata del Convegno. Massimo Cacciari, infatti, ha condotto l’uomo contemporaneo, che vive nelle città in cui, in ogni caso, è rimasto un “centro storico” con nessuna funzione se non quella turistica, a prendere atto della situazione di obsolescenza del termine e della realtà ottocentesche di qualcosa come la “città”. La città risulta sempre più staccata dal luogo della sua costituzione spaziale e proiettata sempre più nella terra, non definibile che mentalmente, della cosmopoli. Non è, strettamente, questione di fragilità, quanto, piuttosto, di vero e proprio sconquasso della mente, di istanza patologicamente rilevante, aggravata dal fenomeno per cui avvengono investimenti multinazionali sui territori senza nessun collegamento con le vocazioni e la storia dei territori. Il centro ormai mancante rende impossibile definire la periferia, se non quella, gridata con forza, da Papa Francesco come periferia del mondo, fatta di disuguaglianze sociali che crescono a dismisura. La fragilità, in sé, ha concluso il filosofo, non esisterebbe se non la generassero globalizzazione e indifferenza. La bellezza, invece, continua ad esistere, ed è legata al senso di responsabilità che ognuno mette nella propria azione

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