DIS…CORSIVO. STORIA O GEOGRAFIA?

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Tra l’ottobre 1814 e il giugno 1815, esattamente duecento anni fa, si teneva il Congresso di Vienna. La penisola italiana ne sarebbe uscita fortemente disegnata sulla lavagna della geografia, del tutto cancellata sul quadrante della storia.

Noi tutti ci siamo formati, sui manuali di storia, a contatto con la lezione unitaria maturata nel corso dell'Ottocento e perfezionata nel corso del Novecento. Oggi, invece, sembra che ci dobbiamo applicare - non so se di nuovo o per la prima volta, tanto la materia è cambiata nel suo statuto scientifico - allo studio della geografia della penisola, tenendo sullo sfondo la storia della Nazione.

Sto guardando la cartina geografica disegnata sull'ipotesi di accorpamento delle attuali 20 regioni italiane che si deve a Morassut e a Ranucci. Assomiglia in maniera esasperante alle cartine preunitarie, da Congresso di Vienna, che i nostri maestri delle scuole elementari si affrettavano a farci vedere per farci passare, subito dopo, alle carte fisico- politiche dell'Italia unita suddivisa in regioni, anche se le regioni ancora non c'erano.

I ricordi preunitari, di due secoli fa, fanno tornare alla mente il Regno di Sardegna, il Ducato di Parma e Piacenza, il Granducato di Toscana, lo Stato Pontificio, il Regno delle Due Sicilie. La carta dell'ipotetico futuro, tolta via l'araldica, si consegna invece pressoché totalmente a un'asciutta geografia. Ecco la Regione Alpina, quella Lombarda, quella Triveneto, l'Emilia-Romagna, l'Appenninica, l'Adriatica, Roma Capitale, la Tirrenica, il Levante, il Ponente, la Sicilia, la Sardegna.

Accettiamo dunque consapevolmente di ripartire dalla geografia, com'è stato due secoli fa. Con due precisazioni, però, da fare, che contengono anche due domande. La prima. Alle spalle della restaurazione post napoleonica in Italia c'era, come oggi, un forte potere “europeo”: come faremo, oggi, ad assicurarsi di non essere di nuovo sotto le grinfie di un Congresso di Vienna? La seconda. Bene o male, abbiamo e conserviamo la conoscenza delle principali vicende storiche del nostro Paese fra statalismo e regionalismo: chi ci insegnerà la geografia corrispondente, quella aggiornata con l'economia e la società, al posto delle vecchie nazioni di monti, fiumi, valli e colline?

È proprio da qui infatti che bisogna ripartire, da una conoscenza non manipolata delle autentiche prospettive di sviluppo di territori ben stretti dentro la morsa della crisi e la maglia, diventata aderente, del regionalismo. L'Italia di domani non sarà ridisegnata da nessun sommovimento borghese e popolare come è stato il Risorgimento; non ci sarà uno Stato-guida, cioè una regione-guida, a concepire il progetto di riarticolazione del Paese; non ci sarà una capitale da conquistare, come nel 1870, ma, semmai, un vituperio metropolitano urbano come Roma da sottrarre alla presa della mafia. E tutti noi, stando alle conoscenze di geografia che abbiamo tralasciato di coltivare, saremo impreparati a pensare, con la nostra testa, quale potrebbe essere il miglior superamento delle regioni verso il quale stiamo andando. Sarà impreparata l'opinione pubblica, saranno impreparati gli amministratori locali, sarà impreparata la scienza economica, sarà impreparata la cultura. E dovremo, ancora una volta, tutti, ricorrere alla cara, vecchia, insostituibile storia. La storia ci insegna che giorno dopo giorno noi facciamo la storia, piccola o grande che sia, una storia collegata all'ambiente nel quale viviamo e dal quale fuggiamo, cioè alla geografia. La storia ci insegna che facciamo anche, direttamente, la geografia, cambiamo il volto alle nostre campagne, rendiamo belli ma riconoscibili i nostri centri storici, cerchiamo collegamenti con terre vicine pur rimanendo fortemente gelosi della nostra, allestiamo reti territoriali maldestramente e ci restiamo impigliati, creiamo infrastrutture nelle quali ci perdiamo.

Ci avvarremo di qualche lezione di moderna geografia, ma il più dobbiamo farlo noi, in prima persona, anche se tutto, intorno, è fosco per la crisi e cupo per certe menzogne della politica che non cessano di essere pronunciate col sussiego e il sorriso sulle labbra. Dovrà essere compito di tutti ripensare, ognuno per lo spazio fisico che occupa e per le relazioni che intrattiene, una geografia alla quale incardinare la storia di quelle entità politico-amministrative che prenderanno il posto delle regioni.

A proposito: ma come si chiameranno le regioni di domani? Le province continuano a chiamarsi province, far passare la denominazione di “area vasta” richiederà più di un passaggio generazionale. Se, in ogni caso, esse, per il cui accorpamento nessuno si è speso, saranno enti di area vasta, che cosa ci sarà di ancora più vasto, geograficamente e storicamente, che possa aderire a quelle aree a ipotetica misura d'Europa verso le quali la politica comincia a sospingerci? Non ce lo diranno né la storia né la geografia e forse dovremo ricorrere a un'invenzione linguistica, segno di civiltà e sinonimo di poesia.

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