DIS..CORSIVO. UNA NORMALE FATICA DI COPPIA

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Non siamo molto abituati a vedere il matrimonio sotto la lente di quella Chiesa presso la quale e dentro la quale il sacramento è stato amministrato.

Quando la famiglia costituita comincia a incontrare i problemi, quando le crepe incrinano il vaso che contiene il ricordo profumato degli sponsali, quando i figli non leniscono le incomprensioni e, anzi, si vedono scaricare addosso le conseguenze dolorose delle responsabilità dei genitori, la via laica dello scioglimento del vincolo affascina terribilmente. La società italiana - che anche giustamente, nonostante le lacerazioni a suo tempo prodottesi nel suo seno, ha cercato, con l'introduzione del divorzio, quella riforma del contratto civile che affermasse la possibilità della rottura del patto matrimoniale – sembra non cercare più la risposta che la Chiesa stessa, riformandosi profondamente in questa materia, è in grado di dare alla crisi del matrimonio e alla possibilità del suo annullamento. Il bisogno di un confronto in questa direzione è, invece, quanto mai interessante, come dimostrano le parole usate e i dati forniti in sede di inaugurazione dell'anno giudiziario del Tribunale ecclesiastico regionale umbro.
“Per quanto attiene ai capi di nullità” - ha affermato Padre Cristoforo Pawlik, vicario giudiziale _ si mantiene la tendenza emersa negli anni precedenti della forte incidenza dell'incapacità consensuale dei coniugi, termometro della realtà sociale dei nostri tempi".
Ma che cos'è l'incapacità consensuale e come vi si rispecchiano le turbolenze delle famiglie dei nostri giorni?
Il diritto postconciliare ha profondamente innovato i princìpi sui quali si basava la Sacra Rota, bersaglio di infinite polemiche del fronte divorzista e fonte di altrettanto infiniti gossip degli anni del secondo dopoguerra. Chi giudica, oggi, in un Tribunale ecclesiatico, parte dalla piena fiducia verso i coniugi e non da atti di dogmatico imperio nei loro confronti, presuppone sempre, nei futuri coniugi, una capacità di esprimere il consenso al matrimonio, anche se non si nasconde di quante difficoltà e di quante umane limitazioni sia fatta la strada di quell'assunzione di responsabilità di fronte a Dio e di fronte agli uomini che porta molte coppie ad adire il Tribunale ecclesiastico per il riconoscimento della nullità. Insomma: individuata la “capacità” come conoscenza dell'oggetto matrimoniale, come discernimento del matrimonio concreto e come prefigurazione degli obblighi che ne derivano, l'incapacità consensuale sarà “la mancanza — per una causa che si può individuare con chiarezza — di alcuni di questi elementi essenziali che si richiedono, per diritto naturale, per costituire il vincolo matrimoniale” (Franceschi – Ortiz) e la nozione di incapacità sarà “una nozione giuridica, diversa dalle cause che ne diedero origine: il giudice non deve fare lo psichiatra o lo psicologo, ma deve determinare se, dal punto di vista giuridico, si sia verificata o meno la fattispecie legale consacrata dal legislatore” (Franceschi – Ortiz).
Alle spalle di questo sistema giudicante – che Papa Francesco ha chiesto di rendere quanto mai veloce e tempestivo – ci sono visioni teoriche che risalgono al grande magistero si San Giovanni Paolo II. Il Pontefice, nel 1997, rivolgendosi agli “auditores Romanae Rotae”, forte dei contenuti della sua enciclica Veritatis Splendor (1993), così scriveva: “Nella valutazione della capacità o dell’atto del consenso necessari alla celebrazione di un valido matrimonio, non si può esigere ciò che non è possibile richiedere alla generalità delle persone. Non si tratta di minimalismo pragmatico o di comodo, ma di una visione realistica della persona umana, quale realtà sempre in crescita, chiamata ad operare scelte responsabili con le sue potenzialità iniziali, arricchendole sempre di più con il proprio impegno e con l’aiuto della grazia”.
E aggiungeva: “L’aspetto personalistico del matrimonio cristiano comporta una visione integrale dell’uomo che, alla luce della fede, assume e conferma quanto possiamo conoscere con le nostre forze naturali. Essa è caratterizzata da un sano realismo nella concezione della libertà della persona, posta tra i limiti e i condizionamenti della natura umana gravata dal peccato e l’aiuto mai insufficiente della grazia divina. In quest’ottica, propria dell’antropologia cristiana, entra anche la coscienza circa la necessità del sacrificio, dell’accettazione del dolore e della lotta come realtà indispensabili per essere fedeli ai propri doveri. Sarebbe perciò fuorviante, nella trattazione delle cause matrimoniali, una concezione, per così dire, troppo 'idealizzata' del rapporto tra i coniugi, che spingesse ad interpretare come autentica incapacità ad assumere gli oneri del matrimonio la normale fatica che si può registrare nel cammino della coppia verso la piena e reciproca integrazione sentimentale”.
Sono questi, dunque, i termini ideali ai quali fanno riferimento “giuridico” e rendono pratica applicazione quanti oggi, in un Tribunale ecclesiastico, rispondono alle domande di annullamento che vengono poste da tante situazioni di inquiete crisi familiare. La sfida – rivolta alla morale laica e divorzista – sul senso di sacrificio e sull'accettazione del dolore che sono presenti in un legame familiare istituisce un confronto sul quale si farebbe bene a non chiudere gli occhi. La “normale fatica” di essere coppia è il peso che si distribuisce ugualmente su una coscienza laica e su una confessionalmente più pronunciata.

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