Cento anni dalla fine della Grande Guerra: i drammi dimenticati di “piccoli uomini” giustiziati o emarginati

di Rita Chiaverini

CASCIA – C’è un invisibile filo della memoria che lega l’Umbria, come il resto dell’Italia, ai monti che furono teatro della Grande Guerra, il conflitto che cambiò il volto all’Europa e al mondo.

È un filo sottile, che protetto per anni dalla distanza e dall’indifferenza ha iniziato piano piano ad essere riscoperto: questa volta però, assumendo un significato di pace tra i popoli e di educazione alla tolleranza e alla convivenza che oggi, più che mai, è necessaria in un mondo senza frontiere. È un filo resistente che uomini e donne, giovani e anziani, privati ed istituzioni cercano di recuperare dall’oblio attraverso gli archivi delle comunità, i documenti conservati dalle famiglie, i racconti tramandati ma soprattutto attraverso i viaggi nei luoghi che furono interessati da quella tragica stagione.

Quelli tra il 1915 e il 1918 furono anni di cui ci resta uno straordinario patrimonio ingegneristico: vennero tracciati in poco tempo migliaia di chilometri di strade, stese funivie, scavate trincee e alloggi militari sulle creste più impervie. Una stagione in cui si realizzarono tunnel sotto le cime delle montagne o dei ghiacciai, si corse all’assalto su ripidi pendii spinti da alti ideali o perché costretti dalla situazione. Una stagione in cui i soldati morirono a milioni non solo per le ferite riportate in combattimento ma anche per il freddo, per le malattie e gli stenti sostenuti in trincea o in prigionia.

E il filo che lega le genti dell’Umbria alle montagne del Nord, teatro della Prima Guerra Mondiale, è lo stesso che oggi, spinge ogni anno, migliaia di persone di Paesi diversi, a raggiungere quei luoghi del Carso, del Grappa, dell’Adamello, del Tonale, della vicina Slovenia, del Piave, dell’Isonzo non solo per semplice curiosità ma soprattutto per rendere omaggio ai caduti, per capire, per riappropriarsi di un pezzo della propria storia e della propria identità. Lì, si respira ancora la tragedia che fu ma raggiungere i luoghi della Grande Guerra è come sentirsi a casa propria perché quella terra ha segnato il Novecento dell’intera Europa, ha segnato la vita di tutte le nostre famiglie, ha avvolto, nell’estremo saluto, le spoglie di milioni di morti.

Alla fine del conflitto ben risuonavano le parole del pontefice Benedetto XV che in una nota inviata ai Paesi belligeranti nel 1917 – con una espressione di cui la storia doveva mostrare la perfetta aderenza alla realtà – parlò di “inutile strage”.

Oggi l’Europa è senza frontiere, problemi e aspetti positivi sono condivisi, abbiamo una sola moneta. È in questo contesto che si diffonde sempre più il fenomeno del “turismo europeo” lungo i percorsi bellici costruiti allora e oggi chiamati “sentieri di pace”. Si risveglia così l’interesse per le gesta dei nostri nonni ma non è sempre facile intraprendere studi in questo ambito, non è sempre facile recuperare la memoria, perchè in Italia, il Commissariato generale Onorcaduti, sta ancora cercando di automatizzare tutti i dati in suo possesso. Resta pertanto il metodo tradizionale di ricerca: i fogli matricolari presso gli archivi di stato, le anagrafi comunali o gli Albi d’Oro del Ministero della Difesa, suddivisi per provincia di nascita dei caduti.

Oggi, tutte le “vestigia” della Grande Guerra, dai documenti cartacei ai monumenti, finora lasciati all’usura del tempo e al rischio di dispersione, sono protette dalla legge 7 marzo 2001, n. 78 “Tutela del patrimonio storico della prima guerra mondiale” che, riconoscendone il valore relativo al passato oltre che culturale, intende conservare e valorizzare questo grande patrimonio per trasmetterlo alle generazioni future.

Questo riguarda anche l’Umbria: la sua popolazione ha gioito e sofferto con gli altri italiani; ha dato il suo contributo alla storia nazionale ha pagato il suo tributo di sangue, ha contribuito allo sviluppo economico, sociale e culturale del Paese, ha conosciuto il dramma dell’emigrazione in Italia e all’estero.

Tutte le guerre, ieri come oggi, presentano una infinità di errori, di orrori e di costi: i caduti sul campo, i morti negli ospedali, gli invalidi destinati a una misera esistenza, le vicende della prigionia militare. Tuttavia, uno degli aspetti più sconvolgenti riguarda la repressione interna agli eserciti, in particolare le esecuzioni sommarie dei soldati.

Diversi poeti e scrittori sintetizzarono la sofferenza dei militari sui luoghi della Grande Guerra. Tra questi Giuseppe Prezzolini, fondatore de “La voce” che, con il grado di capitano di fanteria prese parte al primo conflitto mondiale. Nel suo diario (1900-1941) scrisse alla data del 1 dicembre 1916: “Ciò che fa meraviglia lassù non è che si muoia, ma che si viva“.

Una esperienza condivisa anche dai fanti umbri, per lo più inquadrati nella Brigata Alpi (51° e 52° fanteria) o nella Brigata Perugia (129° e 130° fanteria) che un giorno sulle aspre petraie del San Michele – secondo quanto narrò a suo tempo un bollettino di guerra – “fasciati i piedi sanguinanti con i sacchetti a terra tornarono ostinati all’attacco e ostinati mantennero le posizioni già due volte prese e perdute”.

Gli umbri caduti durante il primo conflitto mondiale furono 10.934 di cui 4.839 per ferite riportate in operazioni di guerra, 4.165 per malattie, 414 per cause accidentali, 1.398 per dispersione e 118 per scomparsa.

Perirono 7.515 fanti, 89 carabinieri, 90 granatieri, 195 alpini, 584 bersaglieri, 364 mitraglieri, 101 della cavalleria, 682 dell’artiglieria, 86 dei bombardieri, 320 del genio, 78 della sanità, 2 del commissariato sussistenza e amministrazione, 18 degli autotrasportatori, 9 operai, 35 della Regia marina, 26 della Regia aeronautica, 33 della Regia guardia di finanza, 13 coloniali, 10 umbri arruolati nell’esercito americano e 72 uomini classificati “vari e minori”.

I caduti umbri decorati al valor militare furono 350 di cui 3 decorati di una medaglia d’oro, 1 di una medaglia d’oro ed una di bronzo, 166 di una medaglia d’argento, 6 decorati con due medaglie d’argento, 8 decorati con una medaglia d’argento e una di bronzo, 1 decorato con una medaglia d’argento e due di bronzo, 1 decorato con due medaglie d’argento e 1 di bronzo, 163 decorati di una medaglia di bronzo e 1 decorato con due medaglie di bronzo.

Le gesta di questi soldati potrebbero essere ricordate una ad una perché la loro storia racconta con efficacia il volto vero e drammaticamente umano del primo conflitto mondiale, quello che ha segnato una svolta nei destini dell’Europa e, oltre ai morti, ha causato nei Paesi belligeranti 21 milioni di feriti alcuni dei quali restarono col corpo talmente devastato da venir trattati, alla fine del conflitto, come lebbrosi, senza riuscire più ad instaurare rapporti umani con i propri simili.

A tal proposito credo che sia giusto recuperare anche la triste memoria di coloro che sono stati dimenticati, come, ad esempio, Sabatino Viola, giovane ed istruito muratore, che nacque a Montebibico di Spoleto nel 1893 da Tommaso e Speranza Diamante. Si arruolò nel 1913 nel 1° reggimento genio dove assunse prima il grado di caporale e successivamente quello di caporale maggiore. Il grado di sergente arrivò il 20 dicembre 1915 quando ormai l’Italia da sette mesi aveva dichiarato guerra all’Austria-Ungheria.

Si sta d’autunno come sugli alberi le foglie” pochi versi di Giuseppe Ungaretti per descrivere la vita in trincea: ed è proprio lì, durante una battaglia sul fronte del San Michele, che il Viola, nell’agosto del 1916, venne ferito gravemente al piede sinistro dal devastante proiettile “shrapnels”. Dopo la convalescenza venne inviato sul monte Grappa: era il 17 ottobre 1917. Di lì a qualche giorno si sarebbe verificato lo sfaldamento dell’esercito italiano con la disfatta di Caporetto. Qui, sul monte Sacro alla Patria, durante una cruenta battaglia, venne di nuovo ferito alla gamba destra ed evirato dallo scoppio di una granata nemica. Iniziò allora il suo calvario che lo porterà alla morte a soli 32 anni: maciullato nel corpo non resse alle ripercussioni psicologiche e all’emarginazione in cui venne relegato successivamente.

Nonostante fosse pluridecorato morì in solitudine nell’ospedale psichiatrico di Perugia e non meritò di essere ricordato nemmeno tra i nomi dei caduti scolpiti sul monumento di Spoleto, inaugurato nel 1932 da Aimone di Savoia, discendete dell’invitto condottiero della III Armata oltre che Duca di Spoleto. E questo velo di oblio calato silenziosamente sulla sua storia è provato anche dalla sua scheda matricolare, diversa dagli altri perché nascosta da un foglio sovrapposto per impedirne l’immediata lettura. Sopra c’è scritto solo: «morto nell’ospedale psichiatrico di Perugia».

Ma durante la Grande Guerra, accanto al dramma dei mutilati e degli invalidi, ci fu un dramma nel dramma, quello delle esecuzioni sommarie: queste morti prive di una “memoria ufficiale” furono condannate all’ignominia e seppellite da una vera e propria congiura del silenzio. Eppure furono largamente applicate: circa 600 nell’esercito francese, 330 nell’esercito britannico, 750 in quello italiano su una forza più o meno pari a quella inglese e circa la metà di quella francese.

E tra gli umbri che entrarono nel numero di coloro che vennero fucilati nel corso di una esecuzione sommaria ordinata per reprimere “fulmineamente” l’indisciplina delle truppe c’è anche Vincenzo Troili di Argentigli di Norcia, oggi un piccolo borgo disabitato di cui restano solo ruderi.

Nacque il 31 ottobre 1897 da Domenico e Maria Alessandrini che nelle trincee slovene di Peciuka persero anche l’ altro figlio Pietro di soli 21 anni.

Vincenzo Troili era un giovane fornaio che nel 1916, come tanti altri, venne chiamato alle armi per la mobilitazione generale. Inquadrato nel 69° Reggimento fanteria (Brigata Ancona), nel dicembre di quello stesso anno raggiunse la zona dichiarata in stato di guerra. Morì a soli 20 anni a Foza, il 20 novembre 1917, in seguito a fucilazione alla schiena per reato di ammutinamento. Il suo foglio matricolare non è stato aggiornato a causa della mancanza di documenti probatori per cui non è stato possibile documentare le circostanze che portarono alla sua morte.

La coincidenza della data di fucilazione ci fa pensare che Vincenzo Troili sia stato uno dei 36 soldati fatti fucilare per ripristinare la disciplina nelle truppe dopo la rotta di Caporetto su ordine del generale Andrea Graziani, che fu zelantissimo nell’applicazione di questa crudelissima norma di guerra. Né si fece maggiore scrupolo di reprimere ogni tentativo di militari isolati o in gruppo, rimasti chiusi nella terra di nessuno, di darsi prigionieri al nemico, prescrivendo che su di loro si dirigesse, “implacabile giustiziere”, il fuoco delle artiglierie e delle mitragliatrici.

Forse – come ha affermato a Cascia anche il sen. Franco Marini, presidente del comitato per le celebrazioni di interesse nazionale, in una recente iniziativa legata al centenario della Grande Guerra – è arrivato il tempo di riscattare queste morti così come sta avvenendo in Francia e in Gran Bretagna dove è stato avviato un dibattito sulla necessità di riabilitare ufficialmente i militari giustiziati che non si fossero macchiati di crimini comuni.

È ora che questi uomini vengano reintegrati nella nostra memoria collettiva nazionale e commemorati insieme alle altre vittime della guerra.

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